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Perché a Napoli serve smentire il cassandrismo di Roberto Saviano

La sortita di Roberto Saviano su la Repubblica è l’ennesimo grido di dolore levatosi da chi aspira al riscatto del popolo napoletano, martoriato nei decenni da soprusi, violenze, insipienza, sciatteria, trascuratezza civica, malavita, malaffare, talvolta connivenze del potere politico con esponenti poco limpidi dell’affarismo locale. Saviano lanciando l’allarme di una “Napoli senza futuro” e di un “mancato rinnovamento della politica” non dice niente di nuovo, anzi, ripercorre antichi sentieri, per evidenziare il disastro napoletano dopo il fallimento dell’esperimento politico-amministrativo di Luigi De Magistris, eletto per caso sindaco di Napoli. Sì, perché nel 2011 gli altri contendenti del centrosinistra, del centro e del centrodestra si mostrarono talmente insufficienti da non riuscire a contrastare De Magistris. Cinque anni fa, quindi, l’ex pm fu visto come espressione di protesta e alternativa al PD bassoliniano e al centrodestra berlusconiano.

Saviano ha ragione a sottolineare che i vecchi-nuovi mali di Napoli si sono aggravati, peggiorati notevolmente. La stagnazione è reale. Non è un dato di novità, sia dal punto di vista politico-sociale che da quello storico-culturale.

Il Mezzogiorno dopo l’Unità è stato considerato dallo Stato nazionale zavorra. Il Brigantaggio non nasce per caso negli anni 1861/66, neppure la sua repressione avvenuta con inaudita ferocia secondo le inumane norme della “legge Pica”. Né poteva esistere una “questione meridionale” senza la strategica scarsa considerazione che i “piemontesi” nutrivano nei confronti della capitale di un regno ricco e operoso come Napoli. I meridionali conobbero la faccia feroce del nuovo Stato unitario attraverso la coscrizione obbligatoria e l’agente delle tasse, i due provvedimenti più odiosi che il regno sabaudo potesse rendere alla gente più debole del Sud. In tale contesto la borghesia intellettuale poco fece, per formare la nuova coscienza civica nazionale, mancò al ceto borghese quella intraprendenza, vivacità, coraggio che nel Nord del Paese furono causa di una crescita economica non solo, ma anche sociale e morale. La politica non riuscì a fare di più, si affidò agli antichi vizi quali il clientelismo, il ministerialismo, l’elettoralismo, diventati nei decenni mali endemici del Mezzogiorno e della sua capitale Napoli.

A fine ‘800 l’on. Giuseppe Saracco presidente del consiglio dell’epoca, per debellare fenomeni delinquenziali al Comune di Napoli e camorristici in città, avvenuti dopo il colera del 1884, nominò una Commissione d’Inchiesta presieduta dal senatore Giuseppe Saredo, per avere cognizioni reali sulle spinose questioni denunciate da parte del settimanale socialista La Propaganda. La Commissione (Inchiesta Saredo) lavorò per mesi per esaminare fenomeni di malaffare, deviazioni, infiltrazioni, connivenze. A conclusione delle indagini, individuati i fatti criminali, ben circoscritti, i responsabili furono denunciati e condannati. Superata la scandalosa contingenza la vita politica, amministrativa e sociale riprese. Napoli riconquistò il suo ruolo, recuperando dignità nazionale e internazionale, grazie all’opera delle nuove energie morali, culturali e politiche di ispirazione cattolica, liberale, socialista. Le forze più ardite e responsabili della città riuscirono a chiudere una triste parentesi per tutti i napoletani.

Negli anni del post-fascismo ci fu un nuovo risorgimento che produsse concreti cambiamenti a Napoli. La politica nel secondo dopoguerra non fu solo azione di buon governo e strumento per eleggere i rappresentanti nelle istituzioni nazionali, ma anche attività di pedagogia civile. Proselitismo ma anche formazione civica.

La fine della Repubblica dei partiti storici ha coinciso con la crisi socio-economica attuale di Napoli e del Sud: le percentuali su povertà e disoccupazione sono spaventose e preoccupanti. E qui Saviano sottolinea un dato vero: la criminalità ormai è diffusa. Dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso l’apparato industriale nel napoletano è stato smantellato, centri strategici economico-finanziari trasferiti al Nord, le stesse proprietà editoriali dei più importanti giornali della città sono o al Nord o a Roma. In questo clima di disarmo generale la politica fatta dai cosiddetti partiti e da personaggi inconsistenti, sfaccendati, inconcludenti non è riuscita a far sentire la propria voce, anzi, forse, ha agevolato con subdole connivenze il declino. Napoli è costretta ad affrontare una doppia crisi: quella che si vive a livello nazionale e quella interna. A soffrirne maggiormente sono i ceti deboli e quelli medi. E’ chiaro che tale condizione di povertà, non solo materiale ma soprattutto morale, favorisce il malaffare, lo spaccio della droga, le attività illecite della malavita organizzata e della microcriminalità.

I partiti allora riscoprano il senso costituzionale della loro presenza nella vita politica, selezionando con severità la classe dirigente, dando vita ad iniziative che consentano un concreto e fecondo confronto con le realtà delle periferie e del centro, coinvolgendo scuole, università, istituzioni religiose e culturali, perché suoni la sveglia per tutti. Governo, intellettuali, classe politica, cattolici e laici, non possono continuare a rimanere nel loro guscio ovattato ad assistere alla triste fine di una grande capitale storica dell’Europa. Napoli non potrà mai essere senza futuro!

I giovani, le energie vive, la gente comune e i preti di periferia siano di stimolo alle organizzazioni politiche, culturali, sportive, artistiche perché Napoli cambi verso, smentendo coi fatti il cassandrismo di Roberto Saviano.

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