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Perché non si può essere troppo ottimisti sull’economia mondiale (e italiana)

Matteo Renzi

Il position paper inviato dal Governo italiano ai partner europei è, sotto molti punti di vista, un anticipo del Documento di Economia e Finanza (DEF) che deve essere varato entro il 15 marzo. In effetti, dopo circa 60 anni dal Trattato di Roma ed oltre 25 anni dal Trattato di Maastricht, le politiche economiche italiane si intersecano in modo sempre più stretto con quelle dell’Unione Europea (UE) in generale e dell’unione monetaria in particolare.

In effetti, l’impronta del position paper è giustamente rivolta allo sviluppo e contiene proposte, non ‘richieste’, ai partner europei in discussione da tempo. Gran parte di tali proposte (dal completamento dell’unione bancaria ad un programma di eurobond per stimolare gli investimenti, da un’indennità di disoccupazione europea a forme di mutualizzazione del debito pubblico) sono ineccepibili. In vari modi, Formiche.net pone l’accento su di esse da vari mesi. Tuttavia, non tengono conto sia della nuova recessione mondiale che si profila all’orizzonte (ed a cui il settimanale The Economist di questa settimana dedica un ampio Briefing di quattro pagine). Lo stesso ultimo rapporto Ocse è incentrato sulla concomitanza di fattori negativi (non solo in Estremo Oriente ed America Latina) che possono causare un ‘rallentamento mondiale’, più lungo della ‘crisi’ iniziata nel 2009.

In effetti, unicamente gli Stati Uniti stanno tirando la carretta dell’economia mondiale ed anche loro stanno mostrando crescenti segnali di debolezza: il mercato dell’edilizia residenziale à alle soglie di un nuovo tracollo, gli utili netti aziendali sono in contrazione, il manifatturiero è in calo da quattro mesi, gli indici di Borsa sono in flessione (specialmente a ragione di quelli del settore bancario); la politica monetaria (che negli USA è stata molto più ardita che in Europa, ed è iniziata ad essere espansiva molto prima che nel Vecchio Continente) non ha avuto grandi effetti, il deprezzamento del dollaro non ha portato giovamento, e la stessa politica di bilancio (dal 2008 al 2015 il debito pubblico americano è cresciuto dal 64% al 104% del Pil) non sembra saper fare muovere la macchina. E’ in questo quadro che si muovono l’unione monetaria e l’Italia. Non è un contesto che consente di dipingere prospettive ottimistiche.

Occorre chiedersi se di tale contesto si ha piena consapevolezza. La Legge di Stabilità per il 2016 è stata costruita sull’ipotesi di una crescita dell’1,4% del Pil. A preoccupare non sono state le stime di alcuni organismi internazionali che la pongono a livelli più bassi (attorno all’1%) quanto quella del ‘gruppo del consensus’(venti istituti di analisi previsionale, tutti privati, nessuno italiano) secondo i cui rapporti mensile anche l’1% sarebbe una meta difficile da raggiungere. E’ noto che gran parte di questi strumenti econometrici si basano sul modello Link costruito da Lawrence Klein la cui principale variabile indipendente è costituita dall’export mondiale, e dalle esportazioni dei principali Paesi; di conseguenza, il traino o il freno internazionale pesano moltissimo sull’andamento economico. Anche il debito pubblico rallenta la crescita: proprio il 23 febbraio il Political Economy Budget Deficit and Debt E-Journal vi ha dedicato un numero intero al tema con saggi di rilievo rivolti in gran misura all’eurozona. In Italia sono state varie proposte: alcune sono state messe a confronto in un seminario CNEL, ma nessuna pare essere stata presa in seria considerazione.

Altro elemento importante è messo in luce da un lavoro, ancora inedito, del Centro Studi Impresa-Lavoro: negli ultimi 14 anni, quale che fosse il loro colore politico, i Governi italiani hanno sovrastimato la crescita del Pil, dovendo, quindi, effettuare, ad esercizio finanziario in corso, manovre suppletive di aggiustamento.

Non bisogna essere ‘gufi’ o ‘Cassandre’ (ma la principessa troiana tanti torti non li aveva) per suggerire grande cautela nelle nuove stime che verranno effettuate per il DEF e nell’indicare che il position paper per i partner europei verrebbe rafforzato da proposte precise per la riduzione del debito (conversione della rendita di titoli ad alti tassi di interesse acquistati negli anni novanta, chiusura entro l’anno di almeno la metà delle partecipate del capitalismo municipale, privatizzazione totale non parziale di Poste SpA e della RAI, e via discorrendo) e per l’aumento della produttività.

Inoltre, il Governo dovrebbe riflettere se non ha messo in moto, forse senza rendersene conto, elementi che rallentano la crescita. In primo luogo, le riforme istituzionali se non accompagnate da forti vitamine di riforme economiche dirette all’aumento della produttività), rallentano almeno per cinque anni la crescita a ragione dell’esigenza di apprendere e metabolizzare le nuove regole. Inoltre, perché ci si è ‘distratti’ dal disegno di legge sulla competitività allestito dal Ministro Guidi, lasciando navigare tra le Commissioni e fare stravolgere da lobby particolaristiche? Era il solo piccolo provvedimento per agevolare l’aumento della produttività,  Infine, come mai non si pensato agli effetti di psico-economia  causati dall’incertezza delle voci su imminenti modifiche delle pensioni di reversibilità e di imposte di successione- misure che aggravano la tesaurizzazione e la trappola della liquidità?

Il DEF prossimo venturo dovrà dare risposte concrete su tutti questi punti.


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