Il lancio di una (nuova) grande riforma della pubblica amministrazione voluta dal Governo Renzi avrebbe meritato un dibattito a livello nazionale ricco e articolato, con i media a fare da traino. Dopo due anni, invece, ci troviamo a discutere fino alla nausea di rubagalline che timbrano e se ne vanno al bar, mentre la legittima indignazione popolare avverso le inefficienze della macchina pubblica viene dirottata sul dirigente pubblico, colpevole di tutti i mali e ridotto alla figura di casellante degli ingressi degli uffici. A dispetto di qualche voce, talvolta persino insospettabile, che si leva a stigmatizzare la povertà del dibattito in essere, non una parola su aspetti che invece sarebbero centrali per rendere più efficiente l’amministrazione pubblica italiana.
La PA ha sofferto decenni di utilizzo personalistico ed elettorale di buona parte della politica che ha avuto ruoli di responsabilità nella storia del nostro Paese e che ha gestito spregiudicatamente posti e cadreghe quali serbatoi elettorali e ammortizzatori sociali. In più, il processo di riforme cominciato negli anni ’90 ha subito sbalzi e virate tali – soprattutto sulla dirigenza – da non riuscire davvero ad incidere sui mali cronici della nostra burocrazia, ai quali la politica non ha saputo offrire soluzioni valide: incapacità di premiare il merito, soffocamento dell’iniziativa individuale, approccio formalistico ai problemi. Quella che ho chiamato la sindrome di Fantozzi consiste nell’illusione fordista, a mo’ di “Tempi moderni” di Chaplin, che resiste immarcescibile nel nostro immaginario collettivo ed è strumentalmente assai utile a chi intende continuare a mantenere lo status quo. Finché resteremo inchiodati allo scandalo dei furbetti del cartellino non riusciremo a cavare un ragno dal buco: e non perché, come è evidente, non sia imperativo allontanare i corrotti, ma in quanto siamo ormai incapaci di mettere sul tavolo i grandi processi che attraversano la nostra società ed il ruolo che possono e debbono svolgere le burocrazie nazionali.
L’enorme strapotere di gruppi industriali che determinano praticamente ogni aspetto della nostra vita quotidiana, il tema dell’impoverimento dell’ambiente e dell’alimentazione per noi ed i nostri figli, la perdita di senso del lavoro (dei lavori) e il dramma della disoccupazione e della sottoccupazione, solo per citarne alcuni: sono fattori su cui il potere pubblico può e deve esercitare un ruolo di controllo per preservare la qualità della vita dei cittadini di un Paese. Un sistema burocratico efficiente al quale la politica sappia offrire obiettivi chiari in un rapporto di leale collaborazione è una leva preziosa, assieme ad un controllo sociale diffuso e maturo, avverso crepe democratiche profonde. Abbiamo una burocrazia in grado di fare in modo efficace la propria parte? Probabilmente non ancora. Per lo stesso motivo per il quale non siamo in grado di esprimerne una classe politica adeguata su queste partite: metodi di selezione inefficienti. Anzi, avversi. Se prendiamo ad esempio il nostro corpaccione pubblico, il vincitore di concorso fatica ad essere maggioranza. Tra leggine ad hoc, stabilizzazioni in massa di precari spesso segnalati, inglobamenti di pezzi di società partecipate e nomine dirette della politica, il mosaico pubblico è un puzzle impazzito in cui il principio costituzionale del pubblico concorso si è preso negli anni una bella strapazzata: l’incredibile vicenda della società Buonitalia raccontata sul Corsera è, da questo punto di vista, esemplare. Uno delle pochissime iniezioni di innovazione, il reclutamento di giovani dirigenti “chiavi in mano” grazie all’esperimento del corso-concorso della Scuola Nazionale d’Amministrazione, non è mai decollato davvero e appare, grazie alla riforma del 2015, sulla via del tramonto. In altre parole, la costruzione per strati della nostra Amministrazione pubblica e la drammatica mancanza di soluzioni organizzative ci regalano un fardello pesantissimo di cui sarà difficile liberarsi per decenni.
Battaglia perduta allora? Affatto. La lotta alla corruzione è elemento indispensabile per fare di questo Paese una nazione moderna: realizziamola nella PA, nell’impresa, nella politica, senza ambiguità o connivenze. Ma oltre a questo serve efficienza, che si costruisce sul senso di appartenenza delle persone alla loro organizzazione, non con l’ennesima circolare. Serve liberarsi dalla ossessione normativa a tutti i costi, di cui sono preda in egual misura la politica e la burocrazia, per sperimentare dimensioni nuove, senza dimenticare mai che fortunatamente possiamo contare su moltissime persone che, a tutti i livelli, si rimboccano le maniche per contribuire a a tirare avanti la carretta nazionale. Riuscendoci a dispetto di mille difficoltà e scontando un astio sociale senza precedenti nella storia. Se è certamente ingiusto bocciare in toto la riforma della ministra Madia, un serio dibattito sul perimetro della pubblica amministrazione e su quelle funzioni necessarie a fare sviluppo sarebbe servito almeno a capire che essa è un pezzo del Paese ed è proprietà di tutti i cittadini. Spetta allora a quelle aree più avanzate della politica, della dirigenza pubblica, dell’imprenditoria e della comunicazione ripartire da una domandina semplice semplice: a cosa vogliamo serva davvero la PA?