Negli ultimi giorni sembra essersi nuovamente acceso il dibattito sulla tassazione delle sigarette e dei prodotti del tabacco. Pensavamo fosse storia passata e che, a un anno esatto dall’entrata in vigore della legge che ha riformato la struttura dell’accisa sulle sigarette, si potesse guardare con maggiore certezza e serenità alle dinamiche di mercato. Forse un po’ di chiarezza può giovare, innanzitutto perché il Governo è chiamato a fissare per il prossimo triennio obiettivi importanti di gettito, anche per scongiurare il pericolo di un’attivazione delle clausole di salvaguardia.
PRIMO BILANCIO POSITIVO PER LA RIFORMA
Cominciamo col dire che il 2015 è stato un anno estremamente positivo. L’andamento dei prezzi di vendita dei pacchetti di sigarette conferma, infatti, che gli incentivi contenuti nella riforma hanno spinto il mercato nella giusta direzione: gli aumenti di prezzo, seppure significativi, non sono stati tali da deprimere i consumi, che sono rimasti sostanzialmente stabili sui livelli del 2014. Proprio la crescita bilanciata dei prezzi e la conseguente tenuta dei consumi hanno generato nel 2015 un gettito erariale superiore alle attese (+260 milioni €).
Guardando al futuro prossimo, sembrerebbe ragionevole lasciare che gli automatismi contenuti nella riforma esprimano tutto il loro potenziale (in particolare, la maggiore pressione fiscale sui produttori conseguente agli aumenti del prezzo medio ponderato), soprattutto sulla scorta degli ottimi risultati dello scorso anno. Alcuni studi invece ipotizzano interventi discrezionali sulla struttura della tassazione, soprattutto nella direzione di un aumento corposo dell’onere fiscale minimo che grava sulle sigarette di prezzo basso (cioè, al di sotto di 4,40 € al pacchetto).
MODIFICHE IN VISTA?
Le argomentazioni alla base di queste richieste di modifiche strutturali della tassazione sono di diversa natura: la prima, economica, si basa sull’idea che le entrate erariali dipendano prevalentemente dai prezzi (più sono alti i prezzi, più sono alte le entrate); la seconda, paternalistica, si fonda sulla convinzione che prezzi alti scoraggino il consumo di tabacco (soprattutto tra i minori e i meno abbienti); la terza, concorrenziale, si preoccupa del fatto che gli adeguamenti automatici del cosiddetto prezzo medio ponderato inaspriscano la pressione fiscale solo sulle sigarette di prezzo alto e medio-alto (al di sopra di 4,40 € al pacchetto).
L’argomentazione di natura economica si basa su un’assunzione per nulla scontata, ovvero che all’aumentare dei prezzi la domanda rimanga invariata (o che vari proporzionalmente meno rispetto ai prezzi). Sullo sfondo c’è quindi l’ipotesi di una domanda inelastica, che appare però smentita dall’evidenza empirica più recente: emblematico, in questo senso, è il caso della Grecia, dove, a seguito di un aumento consistente e generalizzato dei prezzi indotto dalla recente riforma fiscale, le entrate erariali si sono ridotte drasticamente a causa della contrazione della domanda. Il caso Italiano (in cui la domanda è rimasta sostanzialmente stabile nel 2015, a seguito degli aumenti di prezzo indotti dalla riforma fiscale) non deve trarre in inganno: i consumatori impiegano tempo (qualche mese) ad adeguare in modo definitivo i loro consumi, ed è possibile che gli effetti della diminuzione dei prezzi del 2014 e quelli dell’aumento del 2015 abbiano convissuto per buona parte dell’ultimo anno, bilanciandosi. A maggior ragione, quindi, porre in essere interventi volti ad indurre aumenti consistenti di prezzo per le sigarette meno costose potrebbe rivelarsi un azzardo.
L’approccio di tipo paternalistico, lodevole nei suoi intenti di tutela della salute, sembra però pretestuoso: non esiste alcuna prova scientifica degli effetti benefici dei prezzi alti sul consumo di tabacco. All’aumentare dei prezzi, si osserva in molti casi la diminuzione del consumo legale di sigarette e si registra una migrazione dei consumatori verso prodotti alternativi più convenienti: che nella migliore delle ipotesi sono costituiti dal tabacco trinciato e, nella peggiore, dalle sigarette di contrabbando. Con evidenti ripercussioni negative tanto sulla salute quanto sulla sicurezza. Illuminante è il caso dello Stato di New York: aumenti dei prezzi indotti da una fiscalità guidata da fini paternalistici non hanno causato una diminuzione del consumo di sigarette tra i giovani, ma una forte contrazione del consumo legale (e delle relative entrate erariali), accompagnata dalla crescita smisurata delle sigarette di contrabbando (le cd “loosies”), che vengono vendute agli angoli delle strade con modalità simili a quelle utilizzate per il commercio di sostanze stupefacenti proibite.
ALCUNE PRECISAZIONI
Ho letto, in questi giorni, anche alcune considerazioni di colleghi universitari che meritano di essere approfondite, con riferimento a presunti problemi di competitività indotti dai meccanismi automatici di aggiustamento del prezzo medio ponderato. Prima di scendere nei particolari, però, vale la pena puntualizzare alcuni aspetti di natura generale.
I prodotti per i quali l’aumento del prezzo medio ponderato non induce un inasprimento della pressione fiscale rappresentano solo il 20% del mercato e fungono da spartiacque tra il consumo legale di sigarette e le alternative meno redditizie dal punto di vista erariale, che siano legali o no. Tali prodotti sono quelli più incisi dalla tassazione, che si attesta tra il 79% e l’81%; per i prodotti che si collocano al di sopra della soglia dei 4,40 € a pacchetto tale valore scende a circa il 76%. Se a questo si aggiunge che il margine per i produttori è tra il 9% e l’11% su questi prodotti di prezzo basso, mentre è tra il 13,2% e il 14,2% per quelli di prezzo alto e medio-alto, appare evidente come la collocazione nella fascia di prezzo basso sia non solo una scelta strategica, ma una necessità dettata dalla presenza di competitor dominanti nelle altre fasce di prezzo. A maggior ragione in un mercato dove il marchio, e non la qualità, permette la diversificazione dei prezzi.
Più nello specifico, l’incremento del 3% del prezzo medio ponderato comporta una maggiore fiscalità di 0,54 €/kg sui prodotti di prezzo superiore a quello a cui si applica l’onere fiscale minimo. Tale aumento equivale a circa lo 0,22% e, data la situazione attuale, lascia assolutamente impregiudicata la natura regressiva della fiscalità. Un eventuale aumento dell’onere fiscale minimo avrebbe, quindi, finalità di natura diversa dalla tutela della concorrenza.
NON SI TOCCHI LA CONCORRENZA
Un punto deve essere molto chiaro: qualunque intervento non deve avere come conseguenza la distorsione delle dinamiche di concorrenza sul mercato. Il legislatore italiano, trent’anni fa, ha fatto una scelta che poi ha confermato a più riprese: una struttura dell’accisa in grado di mantenere un equilibrio tra le fasce di prezzo e le opzioni di consumo. Inoltre è stato deciso che la tassazione gravante sui pacchetti di sigarette fosse regressiva: chi è più in alto con i prezzi paga complessivamente già meno di chi tiene i prezzi più bassi. Se si rompe questo principio si mette in discussione l’intera architettura del sistema e si altera pericolosamente la concorrenza. Se si seguissero le raccomandazioni di alcuni colleghi si potrebbe perfino configurare l’ipotesi di un aiuto di Stato, come conseguenza della riduzione del carico fiscale sulla fascia di prezzo più ricca del mercato che è oggi monopolio di un unico player dominante.
Insomma: la legge c’è e sta funzionando. Forse qualcuno non accetta l’idea che queste due cose possano andare assieme in Italia. Eppure è così. Se ne prenda serenamente atto.