Sono trascorsi sette mesi e mezzo dal congelamento delle disponibilità bancarie dei privati nelle banche greche (il capital control, come l’hanno subito ribattezzato) deciso dal governo Tsipras insieme all’indecente referendum del 5 luglio 2015. Referendum indecente per ragioni concrete: indetto con un preavviso di pochi giorni, del tutto inedito nei Paesi anche solo sommariamente democratici, basato su un quesito sicuramente incomprensibile per la stragrande maggioranza degli elettori, formulato in termini quanto meno suggestivi, dacché (nel documento che lo proclama) chiede al popolo se esso intende subire un “ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettive di ripresa” e invita il popolo stesso a “rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci” aggiungendo che “al dispotismo e all’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione”.
Qualcuno ricorderà come, pochi giorni dopo la risposta “fiera e sovrana” (“no”) richiesta da Alexis Tsipras e puntualmente fornita dall’ingenuo popolo ellenico, egli stesso accettava condizioni molto più dure della “severa e umiliante austerity senza fine” contro la quale aveva chiesto ai suoi compatrioti di pronunciarsi. Ciò che non gli impediva di vedersi riconfermato, due mesi dopo, a capo del partito di maggioranza quasi assoluta, grazie a una legge elettorale che gli elargiva 145 seggi (su 300) rispetto ai 95 che Syriza aveva conquistato nelle urne (a questo punto verrebbe da chiedersi ancora una volta per quale misteriosa ragione un personaggio come Tsipras sia riuscito a incantare anche una buona parte della cosiddetta sinistra italiana, ma questa è un’altra storia).
Per venire al presente, mentre la Grecia è paralizzata da diversi giorni, da almeno una ventina, da blocchi eretti in tutto il territorio nazionale dai contadini con i loro trattori, qualcuno si è divertito a fare i conti di quali siano state le ripercussioni per la confinante economia della Bulgaria, a sette mesi e mezzo dall’introduzione del capital control, e, al grido di “Thanks Greece”, ha allineato i seguenti numeri: circa 60mila imprese si sono trasferite (quanto meno fiscalmente, in modo da poter operare attraverso le banche locali) in territorio bulgaro; queste corrispondono a 250mila posti di lavoro; nel frattempo, gli imprenditori greci hanno effettuato investimenti diretti per 3,5 miliardi di euro in Bulgaria.
La politica del governo Tsipras, deciso a far votare ulteriori inasprimenti fiscali e contributivi che si aggiungono a quelli introdotti dopo la vittoria elettorale del 20 settembre scorso, ma che resteranno privi di effetti reali visto lo stato comatoso dell’economia greca, non potrà che rafforzare la tendenza alla migrazione delle imprese, considerato anche che il ritorno a un normale funzionamento degli sportelli bancari non è alle viste. Ma è una politica che si basa su una logica ferrea, quella di evitare a qualsiasi costo le riforme istituzionali e strutturali che risparmierebbero al popolo greco il prolungato strangolamento economico al quale è sottoposto ormai da sei anni. Queste riforme, infatti, potrebbero minacciare la presa di Syriza sul sistema politico ellenico, che si fonda sostanzialmente su due pilastri: una pubblica amministrazione pletorica e inefficiente ma rigidamente controllata dal partito al potere, e un altrettanto pletorico apparato sindacale che non ha nulla da invidiare alla cinghia di trasmissione dei tempi antichi. Dulcis in fundo, il sistema di governo ellenico prevede che sia il presidente del Consiglio dei ministri a decidere lo scioglimento del parlamento. Insomma, la Bulgaria potrà continuare a lungo a esclamare Thanks Greece!