Oltre 200 milioni di euro di perdite per il settore agroalimentare italiano. È questa la prima stima che mostra in maniera evidente quanto l’embargo imposto dalla Federazione russa ai prodotti provenienti dall’Unione europea stia danneggiando un comparto vitale per l’economia del nostro Paese. Nel 2013 le esportazioni di ortofrutta, carni e prodotti lattiero-caseari italiani verso la Russia hanno raggiunto il volume record di 706 milioni di euro, in crescita del 5% rispetto all’anno precedente. Un mercato – secondo solo a quello europeo – che offre grandi prospettive di crescita alle nostre aziende e sul quale oggi, per la difficile situazione ucraina, non possiamo più contare, rischiando per i nostri prodotti ripercussioni profonde e di lungo periodo, sia in termini di fatturato sia di immagine.
È evidente che il comparto agroalimentare non possa pagare così a caro prezzo il costo di queste sanzioni ed è urgente che la diplomazia si attivi per ripristinare quanto prima i rapporti commerciali pre-esistenti. Un approccio politico che guardi al futuro e che ristabilisca le condizioni necessarie a riprendere le esportazioni non può però dimenticare le perdite già subite dal settore. In questa direzione, la Commissione europea ha formalmente prorogato fino alla fine di giugno 2016 le misure di sicurezza per il settore ortofrutticolo europeo, come già annunciato dal commissario all’Agricoltura Phil Hogan in occasione del Consiglio dei ministri dell’Ue del 13 luglio scorso. Si tratta di misure introdotte in risposta al blocco di Mosca alle importazioni di frutta e verdura provenienti dall’Unione europea e prolungate in risposta alla decisione della Russia di estendere l’embargo per altri 12 mesi. Misure positive, ma chiaramente insufficienti. Come accennanto, la priorità rimane quella di riprendere la discussione sul piano diplomatico per togliere le sanzioni che hanno generato l’embargo, ma il protrarsi di questo blocco, i danni che ha causato, e che continuerà a causare alla nostra economia, ci obbligano a lavorare con maggiore determinazione anche su altri fronti.
L’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti rappresenta in questo momento la più importante opportunità di crescita all’estero per l’agroalimentare europeo, e italiano in particolare. Il negoziato sulla Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) è un passaggio cruciale per concretizzare nuovi obiettivi di espansione che, in un periodo storico contraddistinto dalla crisi, dalla ridefinizione globale degli equilibri commerciali e da un calo strutturale dei consumi interni, può davvero fare la differenza. La rimozione degli ostacoli al commercio e agli investimenti che caratterizzano larga parte delle relazioni tra Ue e Usa creerebbe, di fatto, la più vasta area di scambio mondiale in cui il settore agroalimentare europeo avrebbe una centralità strategica. Infatti, nonostante si tratti dei due maggiori player, solo l’8% delle importazioni agroalimentari Ue proviene dagli Stati Uniti, mentre le esportazioni Ue oltreoceano pesano per il 13% del totale. Se da un lato si tratta di volumi ancora (troppo) marginali in termini di commercio, dall’altro le opportunità di crescita sono notevoli.
Le dinamiche degli ultimi anni indicano proprio come il ruolo dell’Europa negli scambi con gli Usa sia cresciuto rapidamente sul versante delle esportazioni. Per la parte agricola, il livello degli scambi è rimasto all’incirca costante negli ultimi 25 anni, con un saldo negativo per l’Europa pari a circa 2,7 miliardi. Dal lato dei prodotti trasformati – tra cui vino, olio, pasta e caseari – le dinamiche sono state, invece, diverse e hanno visto una progressiva crescita delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, partita all’inizio degli anni Novanta e tuttora in corso. Il saldo della bilancia agroalimentare è positivo per l’Europa (+6 miliardi), caratterizzato da una continua crescita (+36% negli ultimi 10 anni) e il volume complessivo delle esportazioni europee ammonta oggi a quasi 17 miliardi di euro.
Dicevamo come gli Stati Uniti costituiscano uno sbocco fondamentale per l’export agroalimentare italiano. Dopo Germania e Francia, infatti, il mercato statunitense rappresenta la terza destinazione dell’export agroalimentare nazionale. In particolare per alcuni comparti come il vino, l’olio, i formaggi, i salumi e i prosciutti, rispetto ai quali l’Italia detiene il primato delle importazioni Usa. Il nostro Paese esporta quasi 3 miliardi di euro verso gli Stati Uniti, circa il 9% del totale esportazioni agroalimentari (18% delle spedizioni agroalimentari Ue verso gli Usa). Sul versante delle importazioni agroalimentari, lo scenario è differente: l’Italia acquista dagli Stati Uniti 806 milioni di prodotti agroalimentari, di cui circa i 2/3 riconducibili a beni agricoli. Il saldo commerciale dei beni alimentari è positivo e superiore a 2,5 miliardi, mentre quello agricolo è negativo per oltre 452 milioni di euro.
Nello specifico, il saldo è negativo per commodity come cereali e soia ed è ampiamente positivo per il vino (oltre 1 miliardo di saldo attivo), l’olio, i formaggi, la pasta e i trasformati in generale. Attualmente i rapporti commerciali tra le due realtà sono ostacolati soprattutto dalle cosiddette barriere non tariffarie (differenze nei requisiti – sanitari, ambientali, etc. – che regolano la circolazione dei prodotti alimentari). Quelle tariffarie hanno un impatto minore e riguardano più le esportazioni Usa verso l’Europa che il contrario. Recenti studi d’impatto hanno stimato che a una riduzione del 25% delle barriere non tariffarie, accompagnata dall’azzeramento di quelle tariffarie, corrisponderebbe una crescita dei volumi scambiati tra i due player superiore al 40%.
È però cruciale che i negoziati Ttip subiscano un’accelerazione per evitare che il Tpp (accordo di libero scambio tra Stati Uniti e 11 paesi del Pacifico siglato lo scorso ottobre) imponga le sue regole anche all’Europa. I rischi derivanti dal Tpp, in caso di un mancato patto tra Ue e Usa, sono alti. Il primo è che paesi ad alto reddito procapite come il Giappone, con cui la Commissione sta negoziando un trattato di libero scambio, siano meno disposti ad aperture ai nostri prodotti perché hanno già concesso molto ad Australia, Usa, Canada e Nuova Zelanda. Un rischio ancora più grande riguarda poi la capacità di preservare un modello di sviluppo europeo e gli standard di produzione di cui andiamo orgogliosi.
Col Tpp in vigore senza il Ttip i grandi produttori di commodities guadagnano quote di mercato globale, mentre i produttori di qualità europei sembrano costretti a rincorrere. E questo soprattutto perché l’accordo Trans-Pacifico è anche un grande foro in cui si definiranno gli standard commerciali. Il rischio di medio periodo è proprio quello di dover sottostare alle regole definite nel patto tra Stati Uniti e Paesi del Pacifico. Insomma, se vogliamo far crescere l’agroalimentare europeo all’estero, difendendo al contempo i nostri standard qualitativi, dobbiamo cambiare passo e portare a casa, in tempi brevi, un accordo positivo con gli Stati Uniti.