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L’accordo Ue-Cameron rinuncia agli Stati Uniti d’Europa

Se c’è qualcosa di degno di nota nel Consiglio europeo terminato nella notte (come al solito) del 19 febbraio, è la prevedibilità del suo svolgimento, del risultato e delle dichiarazioni degli intervenuti.

Che altro poteva dire David Cameron di diverso dalla dichiarazione trionfalistica diligentemente trascritta dai giornali e ripetuta da tv e radio? Che altro potevano dire gli esponenti della nomenclatura europea, se non che si era evitato il rischio esistenziale della Brexit? Quanto al problema dei profughi (per usare un’espressione riduttiva) che altro potevano fare i nostri ventotto eroi se non accordarsi su un rinvio?

Del resto, quello dei profughi è uno dei nodi più intricati della politica internazionale, arma, insieme al terrorismo, della lotta per l’egemonia in corso nel Medio Oriente; ciò rende velleitaria la pretesa della signora Angela Merkel di cavarsela con qualche miliardo di euro elargito alla Turchia, come Recep Tayyip Erdogan ha chiarito con la consueta ma non inefficace brutalità: nessuno può ragionevolmente aspettarsi che l’Europa comunitaria sia in grado di confrontarsi con questo problema.

Di fatto, l’Unione europea ha evitato la «secessione» britannica rinunciando una volta per tutte, formalmente, a diventare mai un’unione nel senso politico del termine. Di questo Cameron va particolarmente orgoglioso, ma sbaglia. Sono molti anni che l’Europa ha rinunciato a correre il rischio (perché è ovvio che sarebbe stata un’impresa anche rischiosa) di diventare un soggetto politico. Certo, a questa sconfitta dell’europeismo politico hanno contribuito non poco il crollo del muro di Berlino, la riunificazione tedesca e l’allargamento dell’Ue ai Paesi del Patto di Varsavia. La forzatura dell’euro, poi, ha di fatto esasperato le contraddizioni interne della cosiddetta costruzione europea.

La verità però è un’altra: né ai ceti politici degli Stati europei, né agli apparati burocratici nazionali (e neppure alla burocrazia comunitaria, per quanto possa sembrare paradossale: quale burocrate accorto si giocherebbe 28 «padroni» per finire alla mercé di un solo padrone vero?) è mai passato per la testa di coltivare un disegno di unificazione politica dell’Europa. Una sovranità sostanzialmente impotente, quale è la sovranità dei governi europei, è sempre meglio dell’amputazione di questo fondamentale attributo del potere. Se poi questa scelta vile ruba il futuro ai popoli dell’Europa, tanto peggio per i popoli.

Mentre la parte prevalente dell’establishment degli Stati europei avversava, con silenziosa lucidità, ogni disegno unitario, poche anime belle (belle?) erano convinte che l’unione politica sarebbe arrivata, per forza d’inerzia, sull’onda della moneta unica. Convinzione infondata, per non dire stupida. La “gradualità indolore” che ha contrassegnato il sedicente processo di integrazione europea degli ultimi decenni non poteva prima o poi non scontrarsi col dilemma della sovranità. La fondazione di un nuovo Stato, cioè di un nuovo assetto di potere legittimo (quale sarebbe la nascita di un soggetto politico di portata europea), può avvenire solo attraverso una soluzione di continuità, per via rivoluzionaria oppure attraverso la conquista, comunque dissimulata. Pensare a un moto rivoluzionario nell’Europa degli ultimi sessant’anni appartiene all’universo del comico.

Lasciata ai cultori del magico l’idea che all’Europa l’unità politica non serva, perché il nostro continente ha inventato, primo nella storia, un assetto politico che senza essere federale è tuttavia effettivo e vincolante (un po’ come il tessuto non tessuto), resta l’ipotesi della conquista (germanica, ça va sans dire) oppure, se la parola «conquista» irrita timpani sensibili, l’egemonia o ancora meglio (Bolaffi) un’Europa col «cuore» tedesco. Tuttavia, la Germania sembra ancora troppo impegnata a accumulare surplus commerciali e ancora troppo incerta sulla propria identità per essere pronta a caricarsi delle responsabilità che l’esercizio dell’egemonia comporta.

In un certo senso, gli europeisti sinceri devono essere grati a Cameron per aver imposto il formale ripudio di quello che da molti decenni era il mito falsamente professato dell’Unione europea, di una comunità di Stati in marcia verso una progressiva integrazione. Certo, i mezzi d’informazione (ci scusiamo per l’eufemismo) impiegheranno qualche anno a metabolizzare la notizia, ma prima o poi la fasulla unanimità europeista del politicamente corretto svanirà, e forse gli europeisti autentici avranno, se non altro, la possibilità di contarsi. Potrebbe essere un inizio.


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