Con Ordinanza del 22/01/2016 il Tribunale di Palermo, sezione Lavoro, ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del decreto legge 201/2011, convertito nella legge 214/2011, come recentemente modificato dal decreto legge 65/2015, convertito nella legge 109/2015, nella parte in cui prevede, tra l’altro, che per i pensionati titolari di trattamento tra quattro e cinque volte il minimo Inps sia riconosciuta la rivalutazione, nel biennio 2012 e 2013, nella misura solo del 20% rispetto ai parametri stabiliti dalla legge 448/1998 (90%) o dalla legge 147/2013 (75%).
Il Tribunale di Palermo ha infatti ritenuto che “la suddetta rivalutazione è di entità talmente modesta da indurre a ritenere che anche la nuova normativa mantenga un contrasto con i principi dettati dalla Costituzione e con l’interpretazione che degli stessi principi ha fornito la Corte costituzionale”. Il Tribunale di Palermo ha pertanto disposto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per il giudizio di competenza.
In numerose e coerenti sentenze la Corte costituzionale ha stabilito infatti che “il perdurante rispetto dei principi di sufficienza e di adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita” (sentenza 30/2004).
Inoltre la stessa Corte ha avvertito che “la frequente reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo esporrebbe il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta” (sentenza 316/2010).
Infine, con riferimento alla legge Fornero (art. 24, c. 25, L. 214/2011), che ha stabilito che, in deroga ai meccanismi previsti dalla legge 448/1998 (art. 24, c. 1), “la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a 3 volte il trattamento minimo Inps, nella misura del 100%”, la Corte, riconoscendo ‘costituzionalmente illegittima’ la norma censurata anzidetta, ha sentenziato (sentenza 70/2015) che risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso come retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)”.
Nonostante le sentenze anzidette, il nostro legislatore è intervenuto nel maggio 2015 con il d.l. 65/2015, convertito in legge 109 del 17 luglio 2015, dichiarando di voler applicare la sentenza 70/2015, ma in realtà distorcendone principi e contenuti, ovvero non tenendone conto alcuno. Infatti tale disposizione ha stabilito, nel 2015, quindi con effetto retroattivo a valere per il biennio 2012 e 2013, che rispetto alla variazione Istat applicabile nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra tre e quattro volte il minimo Inps sia riconosciuto il 40% di tali indici, ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo Insp il 20%, ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo Inps il 10% (secondo criteri cervellotici, del tutto incoerenti rispetto all’indicizzazione degli anni precedenti, nonché di quelli successivi).
Anche il cosiddetto “trascinamento”, cioè il computo ai fini dei successivi incrementi dei miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013, è stato sterilizzato e contingentato, nel 2014 e 2015, al 20% della quota di adeguamento riconosciuta, ed al 50% nel 2016: insomma una indegna “una tantum” a titolo di mancia. Non una parola su interessi e rivalutazione, pur dovuti per le somme percepite in ritardo dai pensionati.
Invece per i percettori di pensione oltre sei volte il minimo Inps nulla è stato riconosciuto come dovuto: per essi l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, c. 25, della legge Fornero continua ad operare in modo pieno e stridente, nonostante che proprio queste categorie di pensionati siano state le più penalizzate, da più di 20 anni a questa parte. Quello che sconcerta, tuttavia, nell’Ordinanza 22/01/2016 (pur favorevole) del Tribunale di Palermo (determinata dal ricorso di un pensionato con misura della pensione tra quattro e cinque volte il minimo Inps) è che il giudice non abbia saputo levare gli occhi, avendo dovuto studiare la normativa previdenziale almeno degli ultimi 25 anni, dal caso specifico del ricorrente (l’albero, appunto, della metafora), senza vedere quindi le gravi ingiustizie perpetrate ai danni di tutti i pensionati con pensioni medio-alte (cioè l’intero “bosco”). Se avesse allargato lo sguardo, il giudice avrebbe potuto fornire alla Corte costituzionale molti elementi di riflessione e valutazione circa i danni patiti dai titolari di pensioni oltre le sei volte, in particolare quelle oltre le otto volte, il minimo Inps, infatti:
– la indicizzazione di queste pensioni è stata fortemente limitata nel 1993, nel 1998, nel 1999 e 2000, totalmente azzerata nel 2008, nel 2012 e 2013, ancora gravemente limitata, cioè al 45% e sull’importo complessivo rispetto al tasso di svalutazione che è stato certificato (o sarà certificato) nel 2014, 2015, 2016, 2017 e 2018 (per effetto della legge Letta 147/2013 e dell’ultima legge di stabilità, L. 208/2015);
– analoghe riflessioni (con l’aggravante dell’esproprio, non solo della mancata indicizzazione) possono farsi circa i contributi di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato, introdotti nel triennio 2000-2002, e poi ancora dall’agosto 2011 al dicembre 2014 (disposizione, questa, dichiarata illegittima dalla Corte con sentenza 116/2013) e, ciò nonostante, ancora rinnovati per il triennio 2014-2016, addirittura con l’inasprimento del prelievo, attraverso la legge 147/2013;
– con la legge 109/2015 si è giunti addirittura al paradosso, nell’interpretare al rovescio la sentenza 70/2015 della Corte costituzionale (che ribadisce il divieto, di cui alla sentenza 316/2010, della reiterazione del blocco dell’indicizzazione delle pensioni), che proprio coloro che avevano subito l’azzeramento della rivalutazione nel 2008 (pensioni oltre le 8 volte il minimo Inps) lo hanno dovuto subire ancora nel 2012 e 2013, e sempre in misura piena (senza neppure il riconoscimento, tra l’inadeguato ed il provocatorio, della legge 109/2015 a favore delle pensioni tra le 3 e le 6 volte il minimo Inps, che nessun abbattimento avevano peraltro subito nel 2008);
– si continua a blaterare sulle pensioni che, per la loro misura, dovrebbero mostrare “maggiore resistenza” agli insulti inflattivi, ma sono proprio le pensioni più elevate quelle più calpestate per via del maggior prelievo fiscale, dalle addizionali locali, dalla più severa de –indicizzazione;
– non si riconosce esplicitamente come la mancata indicizzazione delle pensioni, al pari dei contributi di solidarietà, altro non siano, al di là del nomen juris, che una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria.
E così i principi costituzionali di cui agli art. 3, 36, 38, 53 della Costituzione sono regolarmente disattesi, ormai da anni, da parte del nostro improvvido legislatore, col risultato che, per il gioco delle fasce differenziate di rivalutazione o penalizzazione in rapporto all’importo della pensione, chi ha prestato lavoro più qualificato e di responsabilità, che ha avuto retribuzione e contribuzioni maggiori, può trovarsi a godere di una pensione di misura inferiore.
Da queste considerazioni ed analisi emerge come il governo Renzi (non dissimilmente dai governi Monti e Letta) non tenga alcun conto dei valori e dei principi costituzionali, ribaditi in decine di sentenze della Corte in materia previdenziale.
La lungimiranza della politica nel nostro Paese non va, evidentemente, oltre il primo appuntamento elettorale, rispetto al quale vengono invece considerati leciti anche i provvedimenti più costosi ed incoerenti (bonus vari, regalie, ammiccamento agli evasori, ai ladri, ai corrotti, ecc.), perseverando così nell’insano disegno di “comprare” il consenso, piuttosto che “meritarlo”. Speriamo almeno che la Corte costituzionale non tradisca prossimamente se stessa ed il Paese, anche se le modalità della nomina degli ultimi tre giudici costituzionali sono state demoralizzanti.
Mi auguro altresì che i pensionati (quanto meno quelli con misura della pensione oltre le tre volte il minimo Inps), tutto il pubblico impiego, tutte le categorie dirigenti, ecc., dopo anni di vessazioni e di mortificazioni, non si lascino tramortire dalle parole, dalle auto-celebrazioni, dalle promesse (regolarmente deluse), dalla costante falsificazione dei dati di realtà, mantenendosi invece lucidi nel momento decisivo del voto, amministrativo o politico che sia.
In caso contrario, sarebbe come garantire legittimazione e consenso ai propri carnefici. Anche se sembra strano in uno “stato di diritto”, oggi in Italia bisogna mobilitarsi e lottare anche per vedersi riconosciuti diritti consolidati da anni: il diritto alla pensione già maturata ed il diritto alla tutela della salute, su tutti.