Nel Brussels briefing del 1° marzo scorso, una newsletter distribuita per email dal Financial Times, Alex Barker spiega perché l’esito del referendum britannico del prossimo 23 giugno sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea non è prevedibile, quale che sia il responso delle urne. Anche se la maggioranza degli elettori si pronunciasse per l’uscita dall’Unione, non inizierebbe automaticamente nessun processo di distacco del Regno Unito.
Barker ne chiarisce la ragione, che risiede nella procedura stabilita all’articolo 50 del Trattato per l’uscita dall’Unione Europea, una facoltà riconosciuta a tutti gli Stati membri. Una facoltà, tuttavia, non è un obbligo e, coerentemente, la procedura può essere attivata solo da una notifica dello Stato membro intenzionato a uscire dal club. E – aggiunge Baker – non è affatto scontato che il giorno dopo un referendum favorevole al Brexit la notifica parta da Downing Street, anche perché c’è una significativa corrente d’opinione che interpreterebbe la vittoria del Brexit come una “raccomandazione” al governo di Sua Maestà perché negozi che gli altri Stati membri condizioni nuove, diverse e ancora più favorevoli agli interessi della Gran Bretagna, di quelle pattuite in febbraio scorso.
In poche parole, il referendum è un atto interno del Regno Unito, privo di rilevanza comunitaria, sicché non è da escludere che, quale che ne sia l’esito, resti senza conseguenze, se non in termini di evidente perdita di credibilità del governo britannico, ma questo non sembra essere un problema nella società liquida in cui siamo immersi (liquida o, oramai, gassosa?), per dirla col fin troppo citato Zygmunt Bauman.
Dobbiamo abituarci ai referendum enigmatici, o enigmistici? Sembra proprio di sì se pensiamo all’ultimo, in ordine di tempo, che ha interessato l’Europa, quello del 5 luglio 2015 indetto dal governo di Atene e concluso con una schiacciante maggioranza dei “No”, che secondo logica avrebbe dovuto condurre all’uscita della Grecia dall’Ue, ma che nella realtà produsse un effetto diametralmente opposto. Del tutto seriamente, Barker scrive che dopo l’eventuale vittoria dei favorevoli al Brexit, i politici britannici dovranno anzitutto cercare di capire quale sia il vero significato del responso delle urne.
È ovvio che attribuire la “colpa” di questa situazione a un articolo del Trattato dell’Unione Europea è riduttivo. Per misurare la distanza che ormai ci separa dall’Europa che si conosceva, non c’è bisogno di riandare al referendum italiano sulla monarchia del dopoguerra: basta pensare al referendum francese del 2005 che aveva affondato il progetto di costituzione europea. Ormai il referendum è diventato, non certo per colpa dell’articolo 50, uno strumento di bassa cucina politica che strumentalizza senza pudore il principio della sovranità popolare, e di questo è doveroso prendere atto, possibilmente senza rimpianto (anche perché, come chiederebbe la spia sovietica del Ponte delle spie, il rimpianto può servire?).
Quel che invece non si dovrebbe proprio fare è reclamare, da questa disarticolata e informe entità che l’Unione Europea sta diventando, decisioni, scelte politiche, strategie, difesa dei valori comuni (?), come fa, con la stessa impudicizia della vituperata classe politica, la stragrande maggioranza dei commentatori, pardon, degli analisti.