Torna House of Cards e riprende subito il dibattito sulla professione del lobbista, sull’etica della politica, sul gioco del potere. Ci confronteremo su chi assomiglia a chi, su chi copia questo o quell’altro atteggiamento, sul ruolo dei singoli protagonisti: specchio di un sistema reale o grottesche controfigure? La serie di Netflix, quanto e forse più dell’ormai leggendaria West wing, ha puntato i riflettori su ciò che si muove dietro le quinte della politica americana e, di riflesso, di casa nostra. Uno spettacolo in cui i colpi bassi e i raggiri sono all’ordine del giorno, sporcando di sangue le mani di attori che si rivelano guidati da una sete insaziabile di potere.
Seguendo la scalata verso la Casa Bianca di Francis Underwood e di sua moglie Claire veniamo infatti trascinati in un vortice di vicende in cui la politica perde qualsiasi connotazione di eticità, per cedere il passo a una sorta di gioco per la sopravvivenza del più forte. Le efferatezze compiute da Underwood per conseguire i propri obiettivi non sono scandalose in quanto tali. A deliziare lo spettatore è soprattutto la sua arroganza, lo sguardo indagatore che trafigge lo schermo nei momenti di dialogo con il pubblico, le frasi fulminanti che demoliscono qualsiasi concezione non hobbesiana della cosa pubblica.
A guidare l’azione politica di Underwood è la cinica ricerca del successo personale. Lo stesso ispiratore della serie, il britannico Michael Dobbs, è il primo ad avvertire costantemente i grandi leader politici (tutti appassionati della serie, da Obama a Cameron, passando per Renzi) che House of Cards, originariamente una serie di libri ambientanti in Gran Bretagna, non è un manuale di politica. Dobbs non si limita a raccontare trame di fantasia, ma ha vissuto in prima persona gli splendori e le bassezze dell’agone politico. Aveva solo 29 anni quando divenne consulente di Margaret Thatcher, la lady di ferro che ha cambiato il suo Paese. E ne aveva 38 quando assunse la carica di capo di gabinetto del Partito conservatore, per vedere la propria carriera politica distrutta da un furioso litigio con Maggie solo un anno dopo. È stato lui stesso a raccontarlo circa un anno fa a Roma, rievocando quel momento a bordo piscina in cui tracciò distrattamente, tra un bicchiere di vino e l’altro, le lettere “FU” su un foglio di carta. L’acronimo di un insulto, ma anche le iniziali di quel Francis Urquhart che dalle pagine del primo romanzo balzò ben presto sugli schermi televisivi del Regno Unito dei primi anni Novanta sulla Bbc. A vent’anni di distanza, la reincarnazione al di là dell’oceano nelle vesti di Frank Underwood.
Ma la politica è davvero quella raccontata in House of Cards? Dobbs ha ragione. House of Cards non è un manuale, perché il gusto per la narrazione prevale nettamente sul desiderio di imbastire una trattazione onnicomprensiva della dimensione politica. E sbaglia chi paragona il capolavoro di Dobbs al volume che è assurto a simbolo della spietatezza della politica: Il principe di Niccolò Machiavelli. Anche il segretario fiorentino portava il marchio di coloro che sono sopravvissuti al vortice dell’ascesa e della caduta. A differenza di Dobbs, egli voleva assolutamente rientrare in quel mondo, temprato dalla lezione del passato e pronto a sfidarne di nuovo le asprezze. Il governante per cui Machiavelli predispone un agile vademecum non è l’essere amorale erroneamente associato al Principe. “Il fine giustifica i mezzi” è dunque una massima troppo semplicistica per sintetizzare la visione di Machiavelli. Il Principe è disposto a uscire dai saldi binari della morale solo se ciò è reso necessario dagli eventi che lo travolgono. Non è immorale per vocazione o per sfida, ma è pronto a diventare tale se in gioco c’è la sopravvivenza del regime o la propria. Come ha argomentato Francesco Occhetta su La Civiltà Cattolica, Machiavelli ha sfidato il modo convenzionale di analizzare la dimensione politica perché non si è limitato a ripetere lo spartito dell’etica e della virtù: “Il suo fine era quello di scoprire le regole dell’agire politico, e non quello di definire un ideale politico”.
Di cinismo si può parlare anche quando si volge lo sguardo al mondo, apparentemente opaco, della lobby. In House of Cards, Underwood sembra sempre pronto a scendere a compromessi con i rappresentanti di interessi che affollano la sua anticamera. Al pari del politico, il lobbista è cinico solo se strettamente necessario. È per definizione portavoce di un’istanza che va oltre la mera dimensione individuale: mantiene infatti vivo il contatto tra il potente e la realtà sociale che egli rappresenta. Lo richiama, entrando in quell’anticamera, ai propri doveri di decisore. Impedisce ai vari Frank Underwood di impostare la propria esistenza come una logorante ed eterna partita a scacchi tra se stessi e le proprie ambizioni. Se la politica fosse solo lotta senza esclusione di colpi per l’autorealizzazione, la società che essa rappresenta non esiterebbe a intervenire per interrompere il gioco. Per questo il cinismo di House of Cards è magnifico per un romanzo o per una serie televisiva. Nella realtà, è il cinismo necessario del Principe di Machiavelli a costituire il vero antidoto a una visione troppo edulcorata e utopistica del mondo della politica. Quel cedimento eccessivo al dover essere che distingue il filosofo dal buon politico, il sognatore dal decisore. Cinico, se necessario, ma inevitabilmente realista.
Articolo pubblicato sulla rivista Formiche