Dopo nove mesi, l’Italia torna in deflazione, soprattutto per via del calo dei prodotti energetici. Si allontana anche l’obiettivo del governo di una riduzione del rapporto debito/pil nel 2016, che nella Nota di aggiornamento del Def a settembre si basava su una crescita del pil dell’1,6% e su un deflatore dei consumi dell’1,5%. A febbraio, tenendo conto anche delle rilevazioni del mese precedente, l’inflazione acquisita per il 2016 è invece pari al -0,6%.
Secondo le stime preliminari dell’Istat, l’inflazione è diminuita dello 0,2% su base mensile e dello 0,3% su base annua (era +0,3% a gennaio). La forte flessione tendenziale dei prezzi al consumo “è dovuta a una dinamica congiunturale caratterizzata da cali dei prezzi diffusi a quasi tutte le tipologie di prodotto, che si confronta con quella positiva di febbraio 2015 quando, invece, tutte le tipologie di prodotto segnarono una ripresa dei prezzi rispetto al mese precedente”. Pur indebolendosi, al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, l’inflazione di fondo rimane positiva (+0,5%), così come quella al netto dei soli beni energetici (+0,3%; entrambe erano a +0,8% a gennaio).
A nulla è valso il Quantitative easing della Bce che, attraverso una svalutazione dell’euro ed il correlativo aumento dei prezzi all’importazione, avrebbe dovuto portare ad un aumento dei prezzi vicino al 2% annuo. Anche la moneta immessa nel sistema non affluisce all’economia: siamo nella trappola della liquidità, descritta da J.M. Keynes. La moneta bancaria, prodromo della creazione capitalistica di nuova capacità produttiva, rimane inerte. Il sistema produttivo internazionale, dal comparto petrolifero a quello delle materie prime, è afflitto da una sovrapproduzione generalizzata da cui non si riesce a venir fuori. Anche a livello nazionale, nonostante la drastica riduzione della capacità produttiva determinata dai fallimenti di decine di migliaia di aziende e di imprenditori, la domanda è insufficiente: la produzione stagna ed i prezzi calano.
Anche al G20 di Shanghai non si è voluto ancora prendere atto che il sistema capitalistico è vittima della sua stessa straordinaria potenza, avendo annichilito gli antigeni che in passato avevano reso possibile una crescita, di continuo riequilibrata, bilanciando l’accrescersi della produttività con altrettanti maggiori consumi, privati e sociali.
La stagnazione secolare che stiamo sperimentando, pronosticata già da anni dall’ex Segretario americano al Tesoro Larry Summers, non è altro che il sintomo di un eccesso di produzione cui non si accompagna più né una crescita dei salari, bloccati dalla competizione sui prezzi, né un aumento della spesa pubblica, bloccata dall’aumento del debito determinatosi per contrastare la crisi del 2008.
Siamo in un equilibrio di sottoccupazione. I tassi ridotti sugli interessi, che avrebbero dovuto portare alla eutanasia dei rentier, non hanno senso alcuno quando non si attiva contemporaneamente la spesa pubblica per investimenti finanziata in disavanzo.
Se si volesse davvero l’inflazione e la crescita, si dovrebbe ridurre l’orario di lavoro ad invarianza di salario portandolo a sei ore giornaliere, come si fece per superare la crisi del ’29, quando fu ridotto da dodici ad otto. La spesa pubblica “improduttiva” per consumi collettivi, dalla istruzione alla sanità, dalla cura del territorio alla tutela dell’ambiente, dovrebbe prosciugare a tasso zero l’enorme ed inutile liquidità immessa dalle Banche centrali.
Parole al vento, che la crisi non porta via.