Oggi, in Italia, riprendere il discorso sulle “classi dirigenti” è una sfida epocale.
In primis, siamo nel pieno di una “cultura del comando” senza “catena di comando”, cioè dell’idea che il governare possa essere un esercizio di autorità solo calato dall’alto e non condiviso in termini sistemici; tale idea fa il paio con una concezione della democrazia intesa come modello (quasi come dogma), come contenitore generante in sé convivenza, giustizia e libertà e non della democrazia intesa come un processo storico dinamico che deve incarnarsi in ogni “contesto complesso”, adattandosi in ciascuno di essi.
Le “classi dirigenti” della “democrazia-modello” altro non sono che tecnocrati senz’anima politica, travestiti da politici. Si tratta, in questo caso, di esponenti di quella cultura dominante che pensa i corpi sociali come semplici “cuscinetti” fra la realtà e il potere e che non considera la complessità e l’incertezza dei processi storici vitali come l’alimento naturale del “vivere insieme” di un popolo e per la sua organizzazione.
Credo che sia sempre più urgente lavorare per “classi dirigenti” della “democrazia-processo”. Il lavoro è lungo e faticoso ma richiede la consapevolezza storica (auto-critica e critica) che la democrazia non può prescindere dalla sua problematizzazione continua; per fare questo ci vuole una cultura della realtà e le “classi dirigenti” degne di questo nome sono “classi visionarie”, impegnate a maturare e a far maturare realistiche visioni di convivenza.
Nell’Italia dell’eterno presente, dove si confondono la rottamazione e la omologazione con il cambiamento, parlare di “classi dirigenti” significa invocare una rivoluzione necessaria.