“Il comando germanico ha, perciò, ordinato che, per ogni tedesco ucciso, dieci criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”, scriveva il Messaggero fascistizzato il 25 marzo dell’anno millenovecentoquarantaquattro. I nazisti avevano mentito: non era vero che la rappresaglia non sarebbe scattata, se i responsabili dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati al comando militare germanico. I manifesti avevano sì cominciato a circolare per Roma, ma solo dopo che “l’ordine era già stato eseguito”. Il 24 marzo 335 persone erano state fucilate in una cava destinata a diventare il Golgota della Resistenza, un sacrario laico della neonata Repubblica: le Fosse Ardeatine.
Mia Benedetta e Francesca Comencini hanno costruito una drammaturgia teatrale partendo dalle testimonianze orali di sei donne, tre partigiane e tre parenti di vittime dell’eccidio, raccolte dallo storico Alessandro Portelli in un volume uscito nel 1999 (“L’ordine è già stato eseguito”, appunto). Una pièce, “Tante facce nella memoria”, scritta, diretta e recitata da donne, perché “alle Fosse Ardeatine sono morti tutti uomini e hanno lasciato tutte donne” e c’è una storia che non viene mai raccontata, “le vite delle persone che sono rimaste, sua madre, sua sorella”.
L’avvertenza arriva ad inizio spettacolo: si è in teatro, ma non è vero e proprio teatro, le sei attrici (la stessa Mia Benedetta, Bianca Nappi, Carlotta Natoli, Lunetta Savino, Simonetta Solder e Chiara Tomarelli) danno corpo e voce, ma il dramma è la registrazione delle testimonianze dirette di sei sopravvissute (Marisa Musu, Carla Capponi, Ada Pignotti, Gabriela Polli, Vera Simoni, Lucia Ottobrini). Le memorie individuali si alternano in un montaggio serrato, che compone il quadro di una Roma quieta ma ribelle, vuota e, in apparenza, sonnecchiosa, ma pronta a cacciare l’occupante. Nel 1944 l’Italia è divisa in due, dopo l’armistizio badogliano, la fuga del re, il rientro sulla scena di Mussolini. Gli alleati stanno risalendo, ma la capitale è ancora in mano tedesca. Il 23 marzo in via Rasella una decina di partigiani del Gap, guidati a Rosario Bentivegna, attaccano una compagnia tedesca in assetto da guerra: una bomba in un carretto della nettezza urbana – dopo avere avvisato la vicina Croce Rossa – e un assalto in pieno stile. È una data simbolica, l’anniversario della fondazione, nel 1919, dei fasci di combattimento, e muoiono 33 soldati germanici. Il giorno dopo, sui giornali, non c’è nulla, ma i nazisti hanno già deciso la reazione: rastrellamenti, arresti, deportazioni dal famigerato carcere di via Tasso e una rappresaglia (“vi portiamo a lavorare”) che avrebbe dovuto scongiurare ulteriori attacchi. Un eccidio da completare in tempi brevi, con spietata efficienza, dalle due del pomeriggio alle nove di sera, prima che se ne avesse notizia (“avevamo bisogno di un luogo di sepoltura che diventasse d’esecuzione”, dirà al processo il generale Kappler).
Nello spettacolo, adesso in tournée (al Teatro Argentina di Roma è andato in scena dal 15 al 20 marzo), la Storia viene sminuzzata in sei punti di vista, ma la composizione di questo racconto collettivo tiene, perché le sei voci, malgrado le differenze – la vedova Pignotti, dopo la guerra, rifiuterà di incontrare la Capponi – sono quelle delle vittime, al di là dei percorsi individuali. Qualcuno era comunista per via delle leggi razziali, e della guerra alla Francia, e perché con la falce e il martello si combatteva il regime, e l’occupante. Qualcuno, invece, si sarebbe chiesto il perché della scelta violenta (“ero proprio io quella lì?”), qualcuno no, perché uccidere era un istinto di sopravvivenza. Chi non ha perso un marito, o un padre, ha perso un compagno, o un amico. Chi ha agito e prova un sottile senso di colpa (“Non c’erano mai state rappresaglie”), chi si è limitato a subire e, col tempo, ha capito (la lotta era necessaria, ma “il fascismo ci ha impedito di pensare”). Chi ha cercato un disperato tentativo di salvataggio – la famiglia Simoni arrivò a parlare persino con Papa Pacelli – chi si è chiesto che cosa avessero pensato quei padri e quei mariti davanti al plotone d’esecuzione (“sono tornati bambini?”) o perché il conformismo non fosse mai stato preso in considerazione (“perché, papà, non ti sei messo la camicia nera e non sei andato a sentire stupidaggini ogni sabato, sotto un balcone, perché?”).
Le donne si unirono nella ricerca della verità su quei trecentotrentacinque uomini scomparsi nel nulla. Dopo che i nazisti furono cacciati da Roma, gli Alleati affidarono un’inchiesta al colonnello Pollock, e, dietro l’ostinazione delle vedove, (“We don’t give up, we don’t give up”) si procedette al faticoso riconoscimento dei cadaveri, con l’aiuto del professor Ascarelli.
Nella pièce gli uomini, per quanto eroi, restano sullo sfondo, come il generale Simoni, lui che non era un rosso, bensì un monarchico, e aveva capito come sarebbe andata a finire quella guerra “persa in partenza”. Ma le donne, che cosa hanno fatto, come hanno vissuto dopo avere perso parte di sé? Risposta: “hanno lavorato notte e giorno, e sono state zitte”. Al processo Kappler non si sono potute costituire parte civile. Per la maggior parte sono rimaste vedove, come se non fossero riuscite ad elaborare il lutto, come se quei morti, che sono diventati i morti di tutti, non si potessero seppellire. Hanno cercato di mantenere dignità nel dolore, anche fingendo (“prima di entrare a casa, fai un sorriso e poi suona il campanello, altrimenti mi uccidi”, ripeteva la vedova Simoni alla piccola Vera). Hanno portato le loro figlie all’altare, in assenza del padre, hanno lanciato il bouquet alle Ardeatine, perché chi non c’era potesse vedere. E hanno provato sollievo quando non hanno più dovuto badare a nessuno, perché finalmente hanno avuto il tempo per piangere.