Se un accordo tra chi finge buona fede ha un futuro malcerto, peggior destino incombe quando si firma dimenticando il passato. Gli esiti del Vertice bilaterale Italia-Francia tenutosi a Venezia lo scorso 8 marzo, suscitano sorpresa e delusione, ma ancor più preoccupazione. Molti di coloro che si accostano alla politica estera francese tendono, infatti, a sottovalutare la natura perennemente ancipite del suo ruolo rispetto agli equilibri europei: è ancora il frutto dell’irrisolvibile conflitto tra la orgogliosa volontà di rendere universali i valori della rivoluzione, una missione liberatrice dei popoli che portava la Francia napoleonica ad espandersi ben oltre i suoi confini naturali, ed un oggettivo accerchiamento delle coalizioni legittimiste, dall’Inghilterra alla Germania, dall’Austria alla Russia. Più la Francia cerca di espandere il suo potere, più amplia il numero dei suoi avversari: la sconfitta definitiva delle ambizioni globali risale al Congresso di Vienna, quando venne amputata di ogni effettiva proiezione coloniale ad eccezione dei possedimenti in Africa, e soprattutto perse gli antemurali verso Germania ed Austria che non le vennero garantiti neppure un secolo dopo nel Trattato di Versailles.
L’ambiguità della politica estera francese è quindi coeva alle sue stesse ambizioni: se la sede stessa del Vertice, a Venezia, riporta alla memoria le doppiezze di Napoleone Bonaparte, si ripropongono in modo bruciante, perché vigliacche e meschinissime, quelle più recenti di Nicolas Sarkozy. Napoleone non esitò a cedere Venezia all’Austria, tradendo irrimediabilmente l’entusiasmo che aveva accompagnato la sua prima campagna d’Italia, anticipando il disegno secondo cui la Francia non ha alcun interesse strategico all’unificazione dell’Italia, ma alla creazione di satelliti, Regni regionali da affidare al parentado. Stati vassalli, su cui costruire l’Impero. Soggiaceva, il Corso, al mito della gloria eterna di Roma: come ogni barbaro, mentre ne ammirava le antiche istituzioni politiche, coglieva l’occasione per rapinarne i tesori.
Non può meravigliare, quindi, l’esito disastroso degli accordi di Villa Madama, raggiunti a Roma nel febbraio del 2009 tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy: in quella occasione, fu lo stesso Premier francese ad annunciare una “partnership illimitata”, proclamando che “Italia e Francia parleranno con una sola voce in Europa per prendere decisioni forti”. Ed ancora: “Italia e Francia vogliono cambiare l’Europa per tutelare i cittadini europei e trarre insegnamenti dalla crisi: vogliamo sanzionare i paradisi fiscali, controllare gli hedge-fund e fissare nuove regole per la retribuzione dei banchieri, dei trader e per i bonus”. La cooperazione sul piano militare sarebbe stata ancor più solida: “Abbiamo gli stessi obiettivi di politica estera e abbiamo una politica economica comune. Potremmo fare un battaglione navale italo-francese”.
Quelli della Francia furono impegni di cartapesta: fu lo stesso Sarkozy, sin dall’inverno del 2011, a decidere insieme agli Usa ed alla Gran Bretagna l’intervento militare in Libia, appoggiando una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che metteva con le spalle al muro quello stesso Berlusconi che aveva sottoscritto con Gheddafi a Bengasi nel 2008 un Trattato di speciale amicizia, con cui l’Italia si impegnava a difendere l’integrità e la unità territoriale della Libia ed a non concedere l’uso delle sue basi per interventi militari. Ed era già stato sempre Sarkozy a duettare esclusivamente con la Cancelliera tedesca Angela Merkel sin dall’ottobre del 2010, quando al termine del vertice bilaterale di Deuville firmò il comunicato congiunto che sanciva il predominio politico e strategico della Germania in Europa: la ricetta per uscire dalla crisi era quella tedesca, dal Fiscal Compact alla partecipazione delle parti private, obbligazionisti e depositanti, al salvataggio delle banche. Si fece eccezione per quelle francesi e tedesche che avrebbero beneficiato in Grecia e Spagna dei meccanismi di solidarietà europea ed internazionale, con la creazione del EFSM e dell’ESM e l’intervento del Fmi. Il blueprint del piano ipotizzato da Sarkozy per un rollover dei titoli di Stato della Grecia, accompagnato da una garanzia della Bce che faceva esenti da perdite gli investitori, non vide mai le stampe: la Germania aveva detto di no, e da allora la Francia si è acconciata ad annuire.
La “partnership illimitata” fra Italia e Francia proclamata a Villa madama non c’è mai stata, ed il sorriso di scherno che Nicolas Sarkozy si scambiò con Angela Merkel a Nizza nell’ottobre del 2011, prima di rispondere alla domanda di un giornalista sulla affidabilità di Silvio Berlusconi, al termine del G20 in cui eravamo stati posti sul banco degli accusati per la instabilità finanziaria, confermò la consueta doppiezza.
Non sono solo i partner stranieri, come l’Italia, a non poter contare sulla affidabilità dei vertici di Parigi in ordine agli impegni di politica internazionale; anche i cittadini francesi si sono resi conto di quanto siano state vane le promesse del candidato Francois Hollande alle presidenziali nel 2012, riassunte nei famosi “60 impegni per la Francia”. Se fosse stato eletto, moi President, si era impegnato alla rinegoziazione del Patto Europeo di Stabilità e Crescita, alla modifica del ruolo della Bce al fine di renderlo omogeneo a quello delle altre principali Banche centrali, ed alla istituzione degli Eurobond (punto 11): risultati zero, come è noto agli elettori francesi, che hanno bastonato per bene il partito socialista ad ogni tornata elettorale.
Per questi motivi il Comunicato congiunto dei Ministri Pier Carlo Padoan e Michel Sapin rilasciato l’8 marzo scorso è al medesimo tempo sorprendente, deludente e preoccupante. Mentre sorprende il ritorno ad una collaborazione comune, allo stretto coordinamento nel quadro dei negoziati in corso, delude il contenuto del documento, tutto percorso da irrimediabili contraddizioni. Mentre si condividono pedissequamente gli sviluppi istituzionali dell’Europa descritti nel Rapporto dei Cinque Presidenti, l’architettura del rafforzamento istituzionale ed il coordinamento delle politiche, si critica in modo serrato tutto quanto si è fatto in concreto. Da una parte c’è la forte sintonia di vedute in merito alla riforma della governance dell’Unione Europea, al completamento dell’Unione bancaria e dell’UEM, ma dall’altra si constata che “il rafforzamento dei meccanismi di governance, operato a livello europeo in seguito alla crisi finanziaria, per quanto importante per contenere gli effetti avversi della crisi, non sia stato in grado di riportare l’economia europea ai livelli di crescita adeguati e di generare sufficienti posti di lavoro; che il processo di aggiustamento sia rimasto asimmetrico, pesando quindi sulla domanda e rendendo ancora più costoso il necessario consolidamento, il che è sub-ottimale dal punto di vista della zona euro nel suo insieme; che occorrerebbe un approccio più coordinato per ottenere migliori risultati”.
È una tela di Penelope: dopo aver tessuto le lodi del rafforzamento dell’Europa, le si disfano prontamente ribadendo la necessità di una strategia fondata sul rilancio degli investimenti; salvo poi a ritornare sulla necessità delle riforme strutturali e sulla responsabilità delle politiche di bilancio. Ci si barcamena tra l’idea di fondo, secondo cui il giusto equilibrio tra regole fiscali e flessibilità debba essere garantito, e l’attribuzione ai Paesi dell’area dell’euro di una speciale responsabilità per la piena realizzazione dell’UEM: c’è la necessità di una strategia di politica economica comune per l’area dell’euro, che deve prevedere, nel medio periodo, un rafforzamento delle istituzioni comuni; epperò occorrono una funzione di stabilizzazione ciclica comune ed iniziative, nell’ambito dei Trattati vigenti, volte ad introdurre forme di mutualizzazione per sostenere la fiducia dei cittadini nel progetto europeo.
Tutta l’Europa, in questi anni, è stata costruita al di fuori del quadro definito dai Trattati europei, dal Fiscal Compact all’Esm, fino alla Banking Union che si muove al limite delle prescrizioni vigenti. Il richiamo ai Trattati serve solo a rassicurare la Germania che non ci saranno mai trasferimenti di risorse tra le diverse aree.
La preoccupazione è forte quando si legge dell’importanza attribuita ad un’attuazione rapida ed ambiziosa del Piano d’investimento per l’Europa, fondato su una vera addizionalità dei progetti selezionati nel quadro del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) e sul sostegno a dei progetti con un livello di rischio più elevato: si riconosce che del Piano Junker, finora, non si è visto nulla. Dunque, si incoraggia la BEI a dispiegare altri strumenti innovativi nel quadro della FEIS e a continuare ad utilizzare il margine di manovra di cui dispone per sostenere gli investimenti, la crescita e l’occupazione in Europa. Insomma, aria fritta.
Si sfiora il paradosso quando si arriva al paragrafo del Comunicato relativo all’Unione bancaria. I due Ministri, si legge, hanno confermato il loro forte sostegno alla creazione di un sistema comune di assicurazione dei depositi (EDIS), che permetterebbe una più completa mutualizzazione del rischio bancario nell’area euro e “contribuirebbe ad allentare il legame fra le banche e gli Stati sovrani”. Abbiamo accettato, con quest’ultima affermazione, un capovolgimento della verità storica: sono stati gli Stati a salvare le banche e non viceversa. Invece, quindi, di respingere con nettezza la proposta tedesca, secondo cui l’avanzamento dei negoziati sui meccanismi di condivisione dei rischi è condizionato dalla previa approvazione del pacchetto di misure finalizzate alla riduzione del rischio presentate dalla Commissione europea, ci si limita a sostenere che queste discussioni debbano avanzare in parallelo: per l’Italia e le sue banche significa accettare una sconfitta a tavolino, senza aver neppure giocato la partita.
A Roma, nel Vertice del 2009, prevalsero l’ottimismo e le illusioni. Stavolta, a Venezia, solo i brutti ricordi: naturalmente, per chi ha memoria.