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I Giovani Turchi del Pd e quelli veri

Quando sono stati chiamati Giovani Turchi, è difficile che i quarantenni ex dalemiani del Pd abbiano pensato a Francesco Cossiga. Tuttavia Egle Monti, estrosa giornalista amica di Curzio Malaparte, aveva designato proprio con quel nomignolo i giovani sardi che nel 1956 scalzarono inaspettatamente il gruppo dirigente della Dc sassarese legato ad Antonio Segni. Capeggiati dal futuro presidente della Repubblica e da Giuseppe Pisanu, propugnavano un rinnovamento profondo della democrazia cristiana sotto l’egida di Amintore Fanfani, con un occhio al cattolicesimo sociale di Giuseppe Dossetti e con l’altro al New Deal di Franklin D. Roosevelt. È invece più probabile che Matteo Orfini e i suoi compagni di corrente abbiano pensato a Gerard Schröder, leader – insieme a Oskar Lafontaine – dei Giovani Turchi della Spd, come era stata battezzata la sua ala sinistra all’inizio degli anni Ottanta.

La vicenda dei Giovani Turchi storici (quelli veri) è stata ricostruita da Fabio L. Grassi in un volume dedicato alla figura di Kemal Atatürk (Salerno Editrice, 2008). Le sue origini risalgono all’ultimo decennio dell’Ottocento, in cui l’impero ottomano – tallonato dai separatismi nazionali – era sull’orlo del precipizio. Il rischio di un declino irreversibile spinge numerosi ufficiali dell’esercito a creare in clandestinità un movimento costituzionalista, alternativo al regime autocratico del sultano Abdülhamid II. Il centro più attivo di questa opposizione si forma a Salonicco, città cosmopolita e vicina -geograficamente e spiritualmente- all’Occidente.

È proprio a Salonicco che nasce nel 1881, in una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, il fondatore della Turchia repubblicana: Mustafa (che in arabo significa “il prescelto”), poi Kemal (che vuol dire “perfezione”), e infine Atatürk (“Padre dei turchi”). Figlio di un “efendi” (qualcosa come “rispettabile signore”), apparteneva a una generazione di turchi colti e occidentalizzati per i quali l’islam era un dato sociologico e identitario, più che religioso. Diciottenne, entra alla Scuola di Guerra di Istanbul, l’accademia frequentata da quei militari che diventeranno i protagonisti della rivoluzione nazionale turca.

Se il paragone non è azzardato, il disegno innovatore dei Giovani Turchi provoca una sorta di eterogenesi dei fini, come accadrà alla perestrojka e alla glasnost di Gorbaciov: ogni tentativo di democratizzare il quadro istituzionale e sociale dell’impero non faceva altro che accentuare le spinte centrifughe alla sua periferia. Il sultano Abdülhamid prepara così una controrivoluzione (marzo 1909), stroncata in un bagno di sangue dal comando militare di Salonicco. Il sultano viene deposto e sostituito col più docile fratello Mehmed Resad, mentre si completa la conquista dello stato da parte dei Giovani Turchi: il ministero degli Interni viene affidato a Talât, uno dei due suoi capi più prestigiosi. L’altro, Enver, farà ancora meglio: si fidanza con una nipote undicenne di Mehmed Resad, divenendo un membro della famiglia imperiale.

Sconfitti dall’Italia in Libia (1911) e usciti malconci dalle guerre balcaniche (1912-1913), i Giovani Turchi finiscono con l’imboccare la strada di un acceso nazionalismo. Con un colpo di stato insediano un triumvirato dittatoriale retto da Enver e stringono ulteriormente i rapporti con la Germania. Liquidano così l’originario progetto di trasformare l’impero in una realtà federale. Nel 1912 fondano l’associazione “Türk Ocaklarï”, volta a risvegliare l’orgoglio patriottico del popolo. Si schierano a fianco degli imperi centrali nel primo conflitto mondiale, scatenando una brutale repressione interna culminata nel genocidio armeno. Dopo la disfatta militare che infrange definitivamente il loro sogno riformatore, Enver e Talât riparano all’estero. Resta in campo l’unico generale invitto: Mustafa Kemal, il futuro Atatürk.

Oggi ci sta pensando Tayyp Erdogan a distruggere la sua figura e la sua creatura repubblicana.


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