Hanno deciso di spiegarci cos’è il giornalismo, anche se forse hanno scelto i casi sbagliati per farlo. Insomma: se James Vanderbilt aveva finora sceneggiato “pellicole-verità” come The Amazing Spiderman e Robocop, risulta difficile credere che abbia improvvisamente abbandonato la fiction per la sua prima fatica da regista, Truth – Il prezzo della verità, da oggi nelle sale italiane. E infatti non l’ha abbandonata.
La vicenda – molto nota negli Stati Uniti, un po’ meno dalle nostre parti – è quella del servizio militare dell’ex presidente americano, George W. Bush: secondo una serie di documenti, resi noti dalla trasmissione della Cbs 60 Minutes II l’8 settembre 2004 (a meno di due mesi dalla battaglia elettorale con John Kerry), il futuro inquilino della Casa Bianca si sarebbe di fatto imboscato – tra il ’68 e il ’74, quindi a guerra del Vietnam in corso – anziché fare il suo dovere di pilota. A provarlo, sarebbe stata una serie di carte conosciute come The Killian documents, dal nome dell’ufficiale che le aveva redatte e conservate. Ebbene: di quelle carte nessuno – ripeto: nessuno – ha mai provato l’autenticità (vedi cosa ne scriveva Il Foglio, per esempio, lo scorso ottobre, quando il film venne presentato alla Festa del Cinema di Roma). Sia chiaro: l’inchiesta la condusse una numero uno del giornalismo statunitense, Mary Mapes, premiata con un Peabody per quanto raccontato sulle torture di Abu Ghraib, e però licenziata in tronco dalla Cbs subito dopo il caso Bush. Così come venne allontanato dal network, poco dopo, anche il mitico Dan Rather, conduttore (e supervisore) della trasmissione. I nomi per fidarsi c’erano, peccato mancassero i riscontri. Ora: se c’è una cosa che a chiunque faccia il giornalista è stato insegnato il primo giorno di lavoro dal capocronista che prova a fare di te uno del mestiere, è che se hai in mano un documento – e più è potenzialmente scottante, più vale la raccomandazione – devi essere certo della sua provenienza e ancor più certo della sua autenticità. Non si pubblica nulla senza prove certe, e non per mancanza di coraggio, ma perché a pubblicare cose potenzialmente non vere si sputtana la gente o si cambia il corso degli eventi (come un’elezione presidenziale, tanto per rimanere alla storia del film). Questione di deontologia, cioè di correttezza: si racconta la verità (Truth, appunto), avendola verificata, e non la verosimiglianza di accuse che magari ci piacciono politicamente. Tutto il contrario di quanto accadde alla Cbs sul finire dell’estate 2004: Rather disse in onda che i documenti erano stati “certificati dai nostri periti” (bugia) e difese per due settimane il lavoro dell’inchiesta, messo in questione quasi subito da blog conservatori e da altre testate (a cominciare da Usa Today) che provarono come fossero tante, troppe, le incongruenze tipografiche. Il 20 settembre, dodici giorni dopo la messa in onda, Dan Rather ammise: “Se avessi saputo ciò che so adesso, non avrei mandato in onda quella storia così come l’abbiamo raccontata e di certo non avrei utilizzato i documenti in questione”. Bum. E infatti Cbs News, per bocca dell’allora presidente Andrew Heyward si scusò: “Per quanto ne sappiamo – disse – non possiamo provare che quei documenti siano autentici, che poi è l’unico standard giornalistico accettabile per giustificarne l’utilizzo in un reportage. Non avremmo dovuto usarli. E’ stato un errore di cui siamo profondamente dispiaciuti”. Ora, a distanza di quasi dodici anni (e con un’altra elezione alle porte, per ricordare a chi l’avesse nel frattempo scordato che i repubblicani sono brutti-sporchi-e-cattivi) la Hollywood che conta, cioè quella di sinistra, ci riprova con la fiction: scusate tanto, l’errore marchiano era una perla del giornalismo, e i licenziamenti furono il colpo di coda del cattivone Bush. Il film sarà sicuramente divertentissimo, ma come l’ha definita Giuliano Ferrara è “l’epica dei cazzari”, però con un bel cast (Robert Redford, Cate Blanchett).
Dev’essere la moda del momento. Dalla Cbs al Boston Globe sembra l’ora di raccontare quanto siano fighi i giornalisti americani, anche quando non ne beccano una. Il caso Spotlight, fresco di Oscar, è meno campato per aria, perché racconta una vicenda fondamentalmente vera (e atroce) come quella degli abusi su minori commessi da alcuni sacerdoti nell’Arcidiocesi di Boston. Episodi – sia chiaro subito – che devono essere condannati, come chi li ha commessi è giusto che paghi. Quello che non è tanto giusto è il doppio standard che sia gli autori dell’inchiesta allora (anni 2001-2002) sia quelli del film oggi usano per parlare della Chiesa cattolica. L’ha spiegato bene, ancora una volta, l’ex direttore del Foglio: “Nel film, due ore e passa, non c’è nemmeno uno straccio di prete, né di quelli coinvolti né di quelli (e ce ne sono) estranei a comportamenti abusivi, che faccia vedere l’altra faccia del vero, e il vero, lo sappiamo, ha sempre facce diverse: puoi e in certi casi devi concludere in modo univoco, ma la procedura per arrivarci non può mai escludere il dubbio, il tormento, le alternative di cuore e di ragionamento che ti portano al dunque”. Nel film la Chiesa – che, prima di essere una gerarchia ecclesiastica è un popolo di persone che credono in Dio e che tentano, come possono, di testimoniarlo nel mondo – è solo una “santa mafia” che tenta di salvare se stessa dalla vergogna e dall’indicibile, e che pertanto non lo dice e prova a non lasciare che si dica. La verità è che i preti pedofili esistono (anche se le statistiche ridimensionano di molto il fenomeno), che le inchieste è bene si facciano, ma che non sarebbe male raccontare che in America (e ormai anche in Europa) il cattolicesimo ha un peso politico pari a zero o zerovirgola, e che per un sacerdote che sbaglia ce ne sono cento che fanno bene il pastore d’anime e dieci – in giro per il mondo – che danno la vita per la fede. Insomma c’è più bene che male, e molta meno capacità interdittiva di quanto si voglia far credere. Non ci sono, nel film, i risultati degli studi – come quello del John Jay College di New York – che sottolineano come negli Stati Uniti l’81 per cento delle accuse di abusi su minori rivolte ai sacerdoti riguardano i ragazzini e non le ragazzine. Qualcosa che semmai, prima ancora che sulle coperture, dovrebbe far riflettere sui criteri di selezione dei futuri chierici in alcuni seminari. E non c’è nulla sugli abusi su minori in ambienti laici, dalle scuole ai gruppi sportivi fino – ahimè – alle famiglie, che sono i contesti in cui più spesso accadono queste atrocità. Eppure è un aspetto che un giornalista come David F. Pierre jr., autore di Sins of the Press: The Untold Story of The Boston Globe’s Reporting on Sex Abuse in the Catholic Church, mette bene in luce, smascherando anche lo storico pregiudizio anticattolico del Boston Globe e ricordando – per chi l’avesse dimenticato, e sono i più – che il quotidiano del Massachussetts ha spesso avuto un doppio standard sul tema pedofilia, arrivando a dipingere Thomas Reeves, pastore metodista e fondatore della North American Man/Boy Love Association, quasi come un paladino dei diritti civili, e comunque il “portavoce della lotta alla criminalizzazione del sesso pedofilo”. Da che pulpito, verrebbe da dire.