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House of Cards, ovvero il manifesto del potere personale

La serie televisiva House of Cards ha avuto un successo internazionale strepitoso. Colpisce l’opinione pubblica nella sua rappresentazione del potere politico, proponendo un’idea di politica che si svolge all’interno di circoli ristretti. Una rappresentazione che riflette uno stato d’animo diffuso: la politica viene considerata come un arcano dentro il quale le persone comuni non riescono a entrare. Nella realtà invece è tutto più complicato. È vero, però, che il potere ha sempre più caratteristiche di separazione rispetto alla società, e questo è dovuto al fatto che i partiti politici non sono più in grado di collegare chi governa – o si oppone – ai cittadini. Il cinismo evidenziato nella serie rappresenta una componente diffusa non solo in politica, ma in tutte le aree in cui vi è un potere da esercitare.

La visione del mondo politico raccontata dalla serie Tv riporta alla memoria Il principe di Niccolò Machiavelli, ma questo accostamento merita una precisazione: Machiavelli non ha mai esaltato il cinismo, ma ha argomentato che chi fa politica deve guardare ai fatti, non solo seguire ideali. Soprattutto, ha cercato di separare la ragione politica dalla ragione morale. La morale invade il principio del giusto-ingiusto, mentre la politica si basa sul fattibile o non fattibile. Essa non può utilizzare un criterio morale aprioristico perché deve cercare di ricomporre morali (valori) e posizioni (interessi) diversi, e tra di loro contradditori. Il ruolo della politica, in democrazia, è quello di far dialogare quei valori e interessi diversi, sollecitandoli a trovare terreni (seppure limitati) comuni.

La figura di Frank Underwood incarna però quel potere politico che in occidente diventa sempre più potere personale. Sin dagli anni Novanta mi sono misurato con il problema del potere personale (con il volume del 1999 su Il principe democratico e con il volume del 2011 Addomesticare il Principe), per giungere alla conclusione che quel potere è il risultato di trasformazioni strutturali dei nostri sistemi politici. Si consideri il declino dei partiti come organizzazioni rappresentative di classi sociali. Oggi i partiti sono organismi a supporto dei leader, e se non dispongono di buoni leader spariscono dal mercato elettorale. Ma si consideri anche l’internazionalizzazione della politica domestica. Sono i leader, e non i partiti, che vanno agli incontri del G20, del G8 e del Consiglio europeo. Sono i leader che sempre di più incarnano gli interessi nazionali. O si consideri ancora la trasformazione del sistema dell’informazione e della comunicazione: sono i leader che possono bucare l’audience televisiva, non già un’entità astratta come i partiti.

Insomma, l’affermazione dei leader è nei fatti. La politica è cambiata in modo radicale rispetto al passato. Oggi sono i capi di governo e la loro personale autorevolezza che aggregano gli elettori. Questo fu evidente già nel celebre confronto tra John Kennedy e Richard Nixon, con quest’ultimo che aveva di fronte un rivale giovane, tranquillo, rilassato che parlava con calma e rassicurava i cittadini. La vittoria di Kennedy fu la dimostrazione che non aveva vinto tanto il Partito democratico, ma una persona capace di affascinare e motivare gli elettori.

Tornando al personaggio televisivo di Frank Underwood (che vuol dire Franco Sottobosco, espressione che in italiano utilizziamo come idea peggiorativa della politica), esso ci dice che chi diventa leader deve avere anche particolari caratteristiche personali. Non vi è leader che non sia motivato dall’ambizione. Tuttavia una politica democratica è vitale quando riesce a promuovere la trasformazione di quell’ambizione in visione. Una visione sostenuta da determinazione, energia e intuizione. Siccome Matteo Renzi è uno di questi leader, ciò significa anche che l’Italia ha ripreso a essere un Paese vitale sul piano democratico. Renzi è ambizioso (dotato anche di un certa dose di egocentrismo come tutti i leader del mondo), ma la sua ambizione è stata messa al servizio di un programma. Ha introdotto riforme elettorali, istituzionali, del mercato del lavoro o dell’amministrazione pubblica e non si è semplicemente limitato a occupare le televisioni. Il leader plebiscitario risponde generalmente alla storia o al destino (si pensi a De Gaulle). Renzi deve invece rispondere alla sinistra del suo partito che lo critica con sistematicità. Insomma, un leader plebiscitario vive solo di simbolismi.

Juan Perón era famoso in Argentina perché faceva discorsi coraggiosi, cui non sono mai seguiti scelte di governo altrettanto coraggiose. I principi democratici non vanno confusi con quelli autoritari e populisti. Non c’è nessuno oggi che possa dubitare che il governo tedesco coincida con Angela Merkel: lei prende posizione ed entra nel merito del dibattito (basti pensare alla questione dei rifugiati), esponendosi quindi alla critica e all’opposizione. E qui incontriamo un problema cruciale. Le democrazie moderne hanno bisogno di leader, ma devono anche tenerli sotto controllo. Nelle democrazie parlamentari il controllo principale deve provenire dall’opposizione. Ciò che manca all’Italia è soprattutto quest’ultima. Quando c’era Silvio Berlusconi, mancava l’opposizione di centrosinistra, adesso che c’è Renzi non c’è l’opposizione di centrodestra. L’opposizione sparisce quando i partiti che la costituiscono non sono in grado di trasformarsi in veri e propri contro-governi.

Ma naturalmente l’opposizione non basta. Ci vogliono anche controlli costituzionali, giudiziari e sociali. La stampa ha un ruolo fondamentale in proposito. Tuttavia, il controllo non va confuso con l’inibizione all’esercizio del potere politico, cosa che è avvenuta regolarmente da noi. Insomma, va consentito al leader di governare e va quindi controllato per gli effetti della sua azione. Inoltre, il leader è tanto più forte quanto più le istituzioni pubbliche o sociali o economiche o informative sono indipendenti dalla politica. La logica delle politica democratica (che si basa sul numero) non può entrare in istituzioni (si pensi a quelle educative, informative, amministrative) che dovrebbero basarsi sul merito. Se la politica entra dappertutto, è evidente che il leader non incontrerà facili contro-bilanciamenti.

Purtroppo l’Italia è stata troppo politicizzata nelle sue strutture istituzionali e sociali. La depoliticizzazione e la sua sostituzione con la meritocrazia richiederà tempo ed energie. In conclusione, un’élite politica moderna dovrebbe preoccuparsi, innanzitutto, di dare al Paese una democrazia governata e capace di fare emergere buoni leader, perché le società che non si governano da sole finiscono per sottostare al governo di altri. Quindi, in secondo luogo, deve costruire un sistema politico aperto alla discussione e al controllo pubblico. L’utilizzo del web può aiutare, ma non può sostituire la democrazia rappresentativa. La modernità politica consiste in una terza via tra il populismo tecnologico e l’oligarchismo partitico.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche

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