La notizia arriva nel mezzo di una conferenza internazionale in materia di diritti umani per le persone con disabilità. Arriva via social network, naturalmente. Siamo a più di 2000 chilometri da Bruxelles ma la sala è piena di colleghe e di colleghi di paesi diversi che vanno e vengono da Bruxelles con assiduità, tutta gente che frequenta i palazzi e le sale di Rue de la Loi e che là ha colleghi e amici.
Vicino a me c’è la collega belga – vallona – del Ministero del Lavoro, alla quale mostro le notizie sul cellulare. Sbianca e chiama marito e figli: linee intasate, naturalmente. Si tranquillizzerà solo mezz’ora dopo quando riuscirà finalmente a contattarli. Mi tocca fare una presentazione con qualche diapositiva spiritosa che ora è del tutto fuori luogo e apro il mio intervento ricordando le vittime dell’aeroporto (solo in seguito sapremo delle esplosioni nella metro). In pochi minuti sono tutti al telefono in corridoio per sapere se chi conoscono in quelle strade e in quei palazzi al centro dell’Europa stanno bene.
Sì, perché Bruxelles è un crocevia di burocrati da tutta Europa. Ci sono quelli che vivono e lavorano stabilmente nelle Istituzioni, sono gli expats. Chi ci lavora per un periodo di tempo e torna a casa. Chi – come i colleghi seduti attorno a questo enorme tavolo riunioni – va e viene periodicamente, persi nel frullato del calendario delle riunioni della presidenza europea di turno. Ogni volta è la stessa trafila: corsa a Fiumicino per un aereo dopo il lavoro e l’arrivo in quell’aeroporto ormai familiare dove anni fa ti accoglieva un razzo gigante rosso e bianco di una delle più belle storie di Tin Tin.
Ti trascini un trolley e uno zaino per il portatile ed i documenti che serviranno per la riunione del giorno dopo e prendi al volo l’autobus o il treno che ti porta rapidamente in centro città, sognando una pizza del ristorante italiano a Schuman, nel cuore del quartiere europeo, o una birra trappista alla Grande Place e poi il letto nel solito albergo. Sveglia presto, giacca e cravatta e si va nelle sale ovattate della Commissione o delle altre istituzioni dove ti aspettano litri di quello che si ostinano a chiamare caffè. Si incontrano amici e colleghi, euroburocrati inclusi, quelli dalle camicie lilla e le cravatte improbabili, con cui ormai da anni si condividono discussioni e qualche cena, e verso le sei si riparte: bus, aeroporto, atterraggio, casa. E via di nuovo in ufficio.
Ecco, per dire che questi schifosi assassini stavolta non hanno colpito in paesi o città che pure conosciamo e amiamo ma che ci illudiamo di considerare altro rispetto al nostro quotidiano. Oggi c’è di mezzo un pezzo della nostra vita di tutti i giorni e del nostro lavoro. Della nostra storia. Della convinzione che, con tutte le difficoltà e gli intoppi e le storture che ci sono, ogni volta si va lassù per il nostro Paese e per gli ideali di integrazione e solidarietà che hanno portato a questo continente un inusitato periodo di pace. Ed è qualcosa che, se possibile, picchia ancora più a fondo. Soluzioni e proposte verranno. Per ora una cosa va detta: la risposta migliore a questa gente è riaffermare, oggi come non mai, come servitori dello Stato, i valori democratici della costruzione europea. Per oggi basta.