La Tunisia è il Paese che ha dato il via alle primavere arabe e anche quello che ne è uscito in modo migliore. Non tanto per la sua capacità attuale di leadership politica, ma per l’eredità delle strutture costituzionali e di una forma di stato e società disegnata negli anni 50 dal leader della lotta per l’indipendenza, Habib Bourghiba.
Dopo aver guidato la lotta anticoloniale e antifrancese, nel 1956 il laico Bourghiba fece della Tunisia un Paese rispettoso dei principi della Sharia, ma capace di averne un’interpretazione laica. Il suo colpo di genio fu aver disegnato una carta costituzionale con parità effettiva dei diritti della donna sull’uomo e aver delineato la famiglia come un’interpretazione dell’islam. Tutto ciò ha dato i suoi frutti e con il passare delle generazioni si è costruita una vera e propria apertura del popolo tunisino verso i principi della democrazia, che è entrata in contrasto con il regime gestito dal successore di Bourghiba, Ben Ali. Un regime corrotto, ma soprattutto inefficace e incapace di fare riforme in un Paese che, rispetto agli altri Paesi arabi, non ha la minima risorsa energetica e deve quindi progredire e andare avanti con investimenti e creando ricchezza.
Come in Egitto, anche in Tunisia la primavera araba ha avuto la capacità di distruggere il regime preesistente, ma nessuna capacità di costruire una leadership alternativa. È stato il vecchio quadro politico a gestire la forza del movimento dei gelsomini. In Tunisia, per fortuna, il quadro politico non era rappresentato dall’esercito – semmai dai servizi segreti – e da una tradizione politica laica e un mondo islamico illuminato e aperto che ha disegnato un percorso tollerabile. Ma tutto ciò in una situazione di estrema conflittualità sociale. Si è perso del tempo; la classe politica nuova – ma in realtà vecchia – si è messa a discutere della riforma della Costituzione senza affrontare da subito il tema della rinascita del Paese e dell’economia. Sono passati cinque anni e la Tunisia è ferma, se non addirittura arretrata dal punto di vista economico. C’è una società tunisina disorientata, con una leadership politica tutto sommato apprezzabile ma estremamente litigiosa al suo interno e molto inconcludente e, come se non bastasse, il quadro economico è assolutamente disastroso.
Il tutto in un Paese che ha avuto una tradizione millenaria di radicalismi e fondamentalismo islamico. Bisogna sapere e ricordarsi – cosa che stranamente i giornali non dicono mai – che Qayrawan in particolare e la stessa Djerba sono state sin da pochi decenni dopo la morte di Maometto la sede dei kharigiti (seguaci della setta islamica sorta nel 657 d.C. Nella storia sono ricordati per le loro ribellioni sanguinose sotto gli Omayyadi e i primi Abbasidi e per la loro influenza nello sviluppo di idee teologiche e dogmi, ndr) e di alcune sette musulmane fondamentaliste ed estremiste.
Il contesto sociale e la povertà dilagante, ma soprattutto l’inconcludenza di prospettive politiche e di gestione del governo hanno spinto molti tunisini – soprattutto quelli che abitano nella dorsale montagnosa nella parte occidentale del Paese, ai confini con l’Algeria – verso una situazione di radicalismo estremamente forte.
Grazie alle riforme e all’impostazione data da Burghiba, la popolazione tunisina è molto scolarizzata, ma senza nessuna possibilità di sviluppo; si aggiunga poi il fatto che la presenza dei Fratelli musulmani dentro la compagine governativa ha indebolito molto gli apparati dello Stato – anche se i Fratelli musulmani tunisini sono tra i più moderati –come si è visto nella dinamica dell’attentato al Bardo e a Susa, con uno sparatore che per mezz’ora è riuscito ad agire indisturbato. La stessa dinamica dell’attentato all’autobus della Guardia presidenziale, quindi il fior fiore dell’apparato di sicurezza della Tunisia, ha dimostrato che c’è una insipienza e un’incapacità di funzionamento dell’apparato repressivo dello Stato che ha delle chiare origini politiche.
In tutto ciò, si innesta il ruolo dell’Europa. Era evidente che la Tunisia, non avendo un processo di accumulazione che gli permettesse di fare investimenti – se non in piccola parte – non solo aveva bisogno, ma in qualche modo meritava una specie di piano Marshall. È evidente che l’Europa avrebbe dovuto avviare un progetto di investimenti strutturali nel Paese. Sarebbe costato pochi miliardi di euro e avrebbe tolto quegli elementi di instabilità – non determinanti ma sicuramente importanti – costituiti dalla disoccupazione e dalla fame.
L’Europa ha promesso e non ha fatto. Il risultato è che il Paese risulta essere oggi ingovernato. Nelle zone sud-orientali le proteste continuano a scoppiare e le risposte sono assolutamente inadeguate al bisogno. Nell’ignavia dell’Europa e nell’insufficienza di risposta delle forze politiche tunisine, si è creata una miscela perfetta per il proselitismo dell’Isis che, infatti, conta alcune migliaia di giovani tunisini tra i suoi miliziani. È cosa nota il fatto che la Tunisia sia il Paese da cui provengono più foreign fighters.
Anche da parte degli Stati Uniti non c’è una comprensione reale del problema. La posizione Usa non è solamente espressione di un abbandono dell’interventismo storico americano nei confronti del mondo – che è una scelta possibile – ma è caratterizzata da una definizione della realtà secondo uno schema interpretativo proprio, che relega il fenomeno Isis a quello di un’attività criminale che nulla ha a che vedere con l’Isis (con l’islam???). Il recente stanziamento di 142 milioni non è che un’inerzia. Così come lo è la decisione italiana di aprire al commercio la produzione dell’olio tunisino.
La Tunisia ha possibilità di sviluppo basate essenzialmente sul turismo e in parte nell’agricoltura. Ci sarebbe quindi bisogno di un piano, di una progettazione complessiva d’intervento sull’economia, guidata dall’esterno e che metta a disposizione la pianificazione degli interventi sul piano delle opere pubbliche, per l’ammodernamento dell’agricoltura e degli impianti di alcune piccole fabbriche di trasformazione. Tutto ciò è chiaro, evidente e ben noto ma, semplicemente, non si fa.
(Articolo pubblicato sul numero di Formiche di marzo)