Vivere in un mondo virtuale significa, tra l’altro, perdere la possibilità di distinguere il vissuto personale dalla narrazione del vissuto di altri. Anche dopo gli attacchi terroristici di martedì 22 marzo (il martedì sembra uno dei giorni preferiti dai terroristi: gli assicuratori ne prendano nota) tutti gli utenti dei mezzi d’informazione europea hanno vissuto “in diretta” le esplosioni e i loro postumi. È un peccato, perché l’eccesso di coinvolgimento (virtuale) impedisce di mettere a fuoco le novità, le informazioni utili e devia l’attenzione sull’emotività, comprensibile quanto si vuole ma non perciò meno inutile.
Per cominciare dalle non-novità, in Europa – si è detto – manca un efficace coordinamento nella lotta al terrorismo. Come si è avuto modo di osservare ripetutamente in altre circostanze di “latitanza” europea, il problema non è la latitanza dell’Europa: anche un latitante è un soggetto esistente, seppur nascosto, mentre l’Europa, come soggetto politico, non esiste. Se è possibile esiste ancora meno di ieri. Anche un osservatore distratto si sarà reso conto che il famoso accordo Ue-Turchia sui profughi non ha fatto altro che consacrare la situazione di fatto decisa in perfetta autonomia da alcuni Stati membri dell’Europa centro-settentrionale e orientale, cioè la chiusura delle frontiere (alla faccia di Schengen), e l’accordo con la Turchia negoziato e concluso dalla Germania di Angela Merkel, che sostanzialmente si traduce nel pagamento di una sorta di retta al governo di Ankara perché trattenga sul proprio territorio quei profughi e migranti che di tanto in tanto Erdogan minaccia di riversare sull’Europa. L’accordo prevede anche attraverso espedienti come l’abolizione dei visti il rafforzamento della credibilità internazionale della Turchia, un Paese che – senza che nessuno a Bruxelles ci faccia caso – viola quotidianamente lo spazio aereo di uno Stato membro, la Grecia, e si rifiuta di riconoscere un altro stato membro, la Repubblica di Cipro. Per non parlare della libertà di stampa, ed è effettivamente meglio non parlarne, per carità di patria. In tutto questo, l‘incidenza delle cosiddette istituzioni comunitarie si può paragonare alla spolverata di zucchero a velo sulla torta.
Ci sono, tuttavia, anche novità, che pure meriterebbero qualche attenzione. Lucio Caracciolo, un serio conoscitore della geopolitica, riferiva in un salotto televisivo che non bisogna stupirsi per la facilità con la quale il ricercato Salah Abdeslam se ne è rimasto a cento metri da casa nei mesi di latitanza (questa sì che è latitanza) dopo l’attentato parigino al Bataclan. In realtà, ha spiegato Caracciolo, dal punto di vista della sicurezza il Belgio va considerato uno Stato fallito. Lo Stato fallito – si può aggiungere – che ospita le sullodate istituzioni europee e gli organi centrali della Nato. Se ne deve concludere che anche la Nato è ormai realtà virtuale? Lasciamo la risposta agli esperti di strategia che in questi anni sono spuntati come i funghi.
Un giornale elvetico ha voluto contestualizzare gli attacchi di Bruxelles facendo il conto (dichiaratamente prudenziale e quindi largamente approssimato per difetto) degli attentati registrati dal 1° gennaio di quest’anno al 22 marzo. Risultato: 30 episodi con almeno 10 vittime per un totale di 1.300 persone uccise.
È evidente, anche se non è bello dirlo, che non tutti i massacri sono uguali. Se ci si pone (anche questo non è bello ma è necessario) nella prospettiva degli agenti del terrore, le esplosioni nel metro e all’aeroporto di Bruxelles hanno una “resa” ben maggiore delle 300 persone massacrate a Mosul l’8 febbraio scorso: basta dare un’occhiata alle prime pagine dei giornali europei del 9 febbraio e del 23 marzo per rendersene conto.
A questo punto, non sembra di grande utilità versare lacrime su ciò che l’Europa dovrebbe ma non è in grado di fare. Pare più utile concentrarsi su ciò che gli europei fanno ma sarebbe meglio evitassero. A cominciare dall’estenuante serie di di servizi, reportage e dibattiti che fanno eco alle imprese terroristiche.
Dare meno evidenza, insomma, fare meno chiasso non appena la notizia di un attentato in una capitale europea arriva sugli schermi dei computer ne ridurrebbe l’impatto mediatico, che poi è esattamente ciò che gli strateghi del terrore perseguono. Non è una trovata originale, me ne rendo conto, ma almeno nel breve termine non se ne intravedono di più efficaci. Ci rendiamo anche conto che riferire in modo più sobrio su queste vicende potrebbe infastidire i tanti politici e le altre categorie professionali che sul panico indotto dal terrore – soprattutto quello virtuale – campano. Tutto questo si può e forse si deve realisticamente capire. Quel che non riesce a digerire è la giustificazione che gli operatori dell’informazione forniscono a sé stessi e agli altri.
Pelosamente, il mondo dell’informazione, non appena fa capolino l’idea di ridimensionare il chiasso che fa seguito alle azioni terroristiche e che ne costituisce (insieme alle restrizioni della libertà personale nel mondo occidentale) il principale obiettivo, comincia a stracciarsi le vesti, a vaneggiare di libertà di stampa conculcata e – senza minimamente arrossire – del “dovere” giornalistico di pubblicare con la dovuta evidenza tutto ciò che è di pubblico interesse. Questo fanno e dicono gli stessi giornalisti che irridono (non a torto) ai magistrati che giustificano le loro più che discrezionali scelte inquisitorie con la “obbligatorietà” dell’azione penale.
Perfino un giornalista dovrebbe essere in grado di capire che decidere l’enfasi di una notizia non è un esercizio di libertà solo quando l’enfasi viene massimizzata ma anche quando si sceglie, responsabilmente, di contenerla. Ma a quanto pare non si sono ancora trovate le parole giuste per rendere comprensibile questo elementare concetto. Del resto, un grande giornalista italiano, Enzo Biagi, diceva di considerare i giornalisti e i magistrati le due categorie peggiori in assoluto. Diciamo, senza avventurarci in giudizi di valore, che sono due categorie che hanno significativi atteggiamenti in comune, soprattutto di non considerarsi parte della comunità nella quale e della quale campano.