Non si sa se rabbrividire di più per il delitto di cui sono accusati o per la motivazione che ne hanno dato. “Volevamo uccidere qualcuno solo per vedere l’effetto che fa”, ha spiegato Manuel Foffo, uno studente di Giurisprudenza di ventinove anni figlio di ristoratori – dunque un giovane come se ne incontrano tanti -, accusato d’aver ucciso un conoscente, il ventitreenne Luca Varani, in una periferia romana nella notte tra venerdì e sabato scorsi. Con modalità quasi irriferibili, perché includerebbero sevizie e torture, coltellate e martellate, oltre alla presenza di un altro giovane, Marco Prato, al quale pure la Procura contesta il reato di omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà.
Ma che c’entra l’”effetto che fa”, frase che fino a ieri rimandava soltanto alla celebre canzone di Enzo Jannacci, che però alle bestie feroci dello zoo comunale si riferiva? Come si può arrivare a immaginare e realizzare che vita e violenza s’equivalgano? Che uccidere una persona sia come sparare al videogioco? Che qualunque cosa, persino assassinare, sia lecito provare per vedere “che succede”? Se la vita non ha valore, crolla ogni speranza di poterla migliorare, cambiare, arricchire d’affetto e d’amore per sé e per gli altri.
Purtroppo neanche le circostanze della cocaina e dell’alcol che in questo delitto sarebbero scorsi a fiume, né il dolore del padre che per primo ha raccolto la terribile confessione del figlio, così come il drammatico tentativo di uccidersi di uno dei due accusati forse resosi conto dell’orrore, aiutano a rispondere all’interrogativo di fondo. L’interrogativo del perché in così tanti e dilaganti casi prevalga l’idea che la vita non sia la cosa più bella del mondo, e comunque l’unica che ci rende tutti uguali e degni dello stesso rispetto. Attentare alla vita dovrebbe essere il male assoluto.
Eppure, la percezione che una persona non debba essere colpita neanche con un fiore, fatica sempre più a farsi strada. Per esempio ieri era l’8 marzo, ma la catena dei femminicidi non si interrompe nonostante le leggi più severe e l’accresciuta sensibilità della gente. La vita, bene supremo, è da troppi e da troppo tempo calpestata, umiliata, mercificata. Ma se il senso del vivere perde la sua sacrale umanità, se “far fuori” l’altro viene assimilato a un esperimento di laboratorio, allora si sta tutti perdendo la bussola. Tocca soprattutto alle famiglie e alla scuola intervenire per ridare valore al valore più grande.
Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com