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Cosa penso del Def di Renzi e Padoan

Il numero centrale del Def (Documento di economia e finanza), approvato ieri dal Consiglio dei ministri, è 1,2%, il tasso di crescita stimato per il Pil in termini reali nell’anno in corso. Ritengo futile fare polemiche sulla differenza con le stime più ottimistiche presentate circa sei mesi fa nel documento di aggiornamento del Def 2015. Non solo il quadro internazionale è ora meno positivo di allora, ma – i giornalisti tendono ad avere una memoria corta – nel 2007, prima della crisi economica, in un lavoro congiunto, la Banca centrale europea, la Banca mondiale, il Fondo monetario e l’Ocse stimarono in 1,2% il tasso potenziale di crescita dell’Italia nel medio e lungo periodo. Le determinanti principali venivano individuate nell’invecchiamento della popolazione, nell’obsolescenza dell’apparato produttivo delle grandi imprese e nella fragilità delle piccole e medie imprese, spesso alle prese con un sistema bancario anche esso senile. Allora, però, la dottrina dominante era che in Europa il tasso armonizzato dei prezzi al consumo avrebbe viaggiato sul 2% l’anno; quindi, ove l’Italia avesse mantenuto il tasso di crescita potenziale dell’1,2%, il saggio di crescita nominale sarebbe stato del 3,2% l’anno ed avrebbe permesso una graduale riduzione del rapporto debito/Pil.

Da allora non solo il denominatore si è contratto a ragione della crisi in corso dal 2008 ma la demografia milita agguerrita contro gli aumenti dei prezzi e strizza un occhio sornione alla deflazione. Ne presenta stime accurate Timothee Vlandas della Università di Reading nel Regno Unito nello LEQS paper No.107, diffuso on line l’8 aprile poche ore prima della riunione del Consiglio dei ministri. Sta crescendo, specialmente in Italia, la proporzione di coloro che hanno più di 65 anni. Un elettorato che vive di pensioni e, quindi, detesta gli aumenti dei prezzi (che incidono sul valore reale del loro reddito), specialmente in Italia dove viene periodicamente terrorizzato da chi si diletta a lanciare ballon d’essai di balzelli e riforme previdenziali penalizzanti invece di gestire correttamente l’istituto affidatogli.

Quindi, dobbiamo accontentarci di una crescita nominale che difficilmente supererà l’1,5-1,7% l’anno nelle ipotesi, probabilmente ottimistiche, che l’Italia riesca ad esplicare in pieno la propria crescita potenziale e che il contesto internazionale sia favorevole.

Qui occorre porsi tre domanda: si può continuare su un percorso basato su una crescita del Pil nominale (e ripresa inflazione) che pare irrealizzabile? Cosa si può fare per migliorare la qualità della vita e dando certezze agli italiani? Come rilanciare l’investimento produttivo e rendere più efficace e più efficiente la spesa pubblica?

Alla prima domanda si può dare una risposta “radicale”, quale quella che nel Sol Levante diedero un gruppo di (allora) giovani economisti giapponesi. Nei nostri obiettivi di medio termine, non prendere il Pil e solo il Pil come metro ma affiancarlo con indicatori di benessere e di qualità della vita. Negli ultimi cinque anni, il Cnel e l’Istat hanno lavorato insieme per costruire il Bes, indicativo composito di benessere equo e sostenibile. Un lavoro che è stato apprezzato a livello internazionale dalle stesse Nazioni Unite , il cui Segretariato ha affidato a due esperti di fama mondiale (uno è il nostro concittadino Enrico Giovannini) un rapporto (approvato dall’Assemblea Generale Onu) che, per molti aspetti, estende a livello mondiale i concetti alla base del Bes. Il rapporto Onu è stato presentato poche settimane fa al Parlamento. Non si tratta – si badi bene – di ipotizzare “una crescita felice” ma di attuare politiche concrete che salvaguardino gli equilibri di finanza pubblica contenendo le spese poco efficienti e poco efficaci ed esaltando quelle di alta qualità, il perimetro pubblico diventi uno strumento per il miglioramento della qualità della vita.

Ciò non vuole dire solamente un’accentuata enfasi sulla politica per la famiglia ed una maggiore attenzione all’ambiente, ma anche e soprattutto dare certezze a settori fragili come i giovani ed i pensionati ed  un rilancio degli investimenti. I primi – ricordiamolo non vogliono regalini come voucher per andare al cinema e sgravi sull’acquisto di mobilio – ma occupazione, che può essere offerto solo da imprese in ampliamento ed ammodernamento (quindi che investano).

Una riduzione del perimetro della spesa di parte corrente, come ampiamente documentato nel volume (in libreria da una settimana) di Francesco Forte Einaudi versus Keynes (IBL Libri, pp 340, € 20), lascia spazio per l’investimento pubblico (passato dal 3,5% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1%) scegliendo con cura i singoli progetti. Il Piano Juncker sta offrendo un contributo. Occorre, però, una politica pubblica diretta alle piccole e medie imprese che faciliti l’ampliamento delle loro dimensione, la riduzione del loro indebitamento, il pronto pagamento dei loro crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni– premesse essenziali per la ripresa dei loro investimenti. Occorre riconoscere che, in questi campi, Governo e Parlamento hanno iniziato ad agire. Ma si è trattato di passi troppo timidi, a ragione forse di troppi condizionamenti. E’ necessario spronarli a fare di più e di meglio.


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