La stabilità monetaria è una condizione necessaria, ma non garantisce di per sé quella finanziaria. Il successo di due decenni di bassa inflazione e di crescita sostenuta ha celato il pericolo rappresentato da ben quattro pericoli: in primo luogo, i profondi squilibri strutturali, internazionali ed interni ai diversi Paesi. Inoltre, il sistema finanziario ha presuntuosamente ritenuto di poter prevedere, misurandole razionalmente come se fossero rischi statistici, anche le incertezze radicali che invece costituiscono la principale caratteristica del comportamento umano e la virtù intrinseca del capitalismo, capace com’è con la sua dinamica creatrice di rendere reali e concrete anche le innovazioni su cui nessuno avrebbe mai scommesso alcunché. Sono mancate infine sia la cooperazione sia la fiducia, condizioni in cui, come si dimostra nel dilemma del prigioniero, ogni decisioni che si assume è comunque la più dannosa per tutti. Queste sono alcune delle considerazioni fondamentali contenute nell’ultimo libro di Merving King, già Governatore della Bank of England, dal titolo The End of Alchemy.
È stato il successo nel controllo dell’inflazione da parte delle banche centrali, finalmente divenute autonome dai governi nel potere di stabilizzare il potere d’acquisto delle monete, ad aver infuso una erronea sicurezza sulla possibilità di far proseguire all’infinito un processo di crescita strutturalmente squilibrato del commercio internazionale, nell’allocazione del risparmio e nei consumi all’interno dei singoli Paesi, che ha condotto alla crisi del 2008, la più grave, profonda e duratura dal 1930. Ci si è concentrati, a partire dagli anni Settanta, sul problema della inflazione, ritenendo che riassumesse in sé ogni altro. Per di più, a mano a mano che le Banche centrali dimostravano di saper padroneggiare adeguatamente la dinamica dei prezzi, sono stati smantellati tutti i presidi sui movimenti dei capitali e rimosse le limitazioni all’operatività delle banche. Con le politiche di liberalizzazione adottate nel campo dei capitali, della finanza e del credito, sono state eliminate le condizioni che avevano consentito alle banche centrali di assicurare la stabilità nelle relazioni monetarie e finanziarie internazionali, potendo utilizzare la leva della liquidità e dei tassi di interesse senza influire sul cambio, o viceversa. Ormai, come è evidente a tutti dopo la crisi, le politiche monetarie delle Banche centrali hanno un impatto molto più elevato ed immediato sui movimenti internazionali dei capitali, sui livelli del cambio e sui mercati finanziari, mentre l’impatto sul credito e sui prezzi tende ad azzerarsi. La regola del bail-in, inteso come il principio secondo cui sono gli azionisti, gli obbligazionisti ed in ultima istanza gli stessi depositanti a doversi fare carico di un eventuale default bancario, rappresenta l’ultimo strumento, in ordine di tempo, che lascia il sistema finanziario privo di garanzie sovrane di stabilità: non possono intervenire gli Stati e tanto meno le banche centrali. Mentre non frena l’azzardo morale, si potrebbe verificare una crisi generalizzata di illiquidità dell’intero sistema bancario, innescata dal fallimento di pochi istituti o da altri imprevedibili eventi politici o finanziari.
Anche sotto questo profilo, le Banche centrali hanno fatto tesoro delle precedenti esperienze di gestione della liquidità bancaria in situazione di estrema emergenza, che caratterizzarono assai negativamente il comportamento della neo costituita Fed di fronte alla crisi di Wall Street nel 1929, mentre assai più positivamente aveva agito la Banca d’Inghilterra nel 1914 di fronte al panico causato dall’improvviso venir meno del valore degli affidamenti verso i Paesi coinvolti nell’imminente conflitto mondiale. Aver già stampato preventivamente una enorme quantità di banconote, pronte all’evenienza, fu la chiave di volta della strategia della Banca di Inghilterra. L’immissione continua di liquidità da parte delle Banche centrali, cui abbiamo continuamente assistito in questi anni, serve a mettere in sicurezza le banche di fronte al venir meno della fiducia da parte dei depositanti che chiedono tutti insieme di poter disporre immediatamente delle proprie risorse.
Se le banche centrali hanno dimostrato di saper controllare l’inflazione e di gestire correttamente l’offerta di moneta sia in condizioni ordinarie sia durante le crisi, non si può chiedere loro di risolvere i problemi della stabilità finanziaria, che richiedono invece decisioni politiche sui rischi creditizi complessivi, sulla esposizione verso l’estero, sui settori in cui non investire oltre misura, e sui criteri prudenziali per la erogazione del credito: devono essere assunte da organi che rispondono democraticamente, per via delle implicazioni che ne derivano sulla libertà economica e sullo sviluppo del Paese.
Ci sono poi gli squilibri strutturali derivanti dai diversi livelli di competitività nel commercio internazionale, che hanno determinato l’accumulo di passività verso l’estero da parte degli Stati deficitari che ricercavano il pieno impiego ricorrendo alla spesa pubblica finanziata in disavanzo o alla leva del credito. La soluzione più ovvia ed immediata per eliminare gli squilibri sarebbe stata la svalutazione del cambio: ciò avrebbe evitato la accumulazione di debiti sempre più costosi da servire e di crediti sempre più difficili da riscuotere. La rinuncia a questo strumento, e la sua impraticabilità nell’Eurozona dal momento della introduzione della moneta unica, hanno prodotto dappertutto una distorsione nei consumi e nella formazione del risparmio: mentre nei Paesi con avanzi strutturali c’è stata una bassa domanda ed una accumulazione eccessiva di risparmio, nei Paesi deficitari c’è stato un eccesso di domanda ed una carente formazione di risparmio. Servivano politiche monetarie diverse, rese impossibili dalla moneta unica.
Dopo la crisi, chi poteva svalutare l’ha fatto, usando anche la leva della liquidità bancaria, come gli Usa, la Gran Bretagna, il Giappone e di recente anche la Cina. All’interno dell’Eurozona, non potendo ricorrere alla svalutazione per correggere gli squilibri commerciali interni, si è ricorsi alle misure fiscali restrittive ed alla strategia della deflazione competitiva: politiche che interferiscono ancora pesantemente con gli obiettivi di stabilità monetaria della Bce e che mettono nuovamente a rischio la stabilità finanziaria, visto che la crisi economica indotta dalle misure restrittive danneggia il sistema bancario. Il Qe deciso da Francoforte ha esaurito i suoi effetti positivi sul cambio dell’euro sin dal suo primo annuncio, mentre sono state pressochè ininfluenti le successione estensioni ed ampliamenti. Dal punto di vista del contrasto alla deflazione, il risultato previsto attraverso un aumento dei prezzi all’importazione è stata nullo in quanto le quotazioni del petrolio e delle materie prime, espresse in dollari, sono cadute più del cambio dell’euro.
La Germania, che in più occasioni fu costretta in passato a rivalutare il marco per ridurre il proprio avanzo commerciale verso gli Usa, vive ora al riparo dell’euro e lucra ulteriormente dalla sua debolezza indotta dalle politiche monetarie della Bce, volte dapprima a ridurre il costo dei debiti pubblici e poi a ridare competitività internazionale all’Eurozona, senza poter incidere sugli squilibri commerciali interni.
Gli equilibri nel commercio internazionale sono stati ricostruiti in modo precario in quanto stati basati su una forte contrazione delle importazioni da parte dei paesi deficitari. Reggono solo tenendo bassi i salari ed alta la disoccupazione. Così come lo squilibrio precedente incontrava un limite sul piano finanziario internazionale, l’equilibrio attuale si fonda sulla tenuta sociale, politica e finanziaria interna, sempre più precaria.
Il lungo periodo di stabilità monetaria garantito dalle banche centrali, e la crescita economica pur basata su squilibri internazionali ed interni crescenti, erano stati proiettati all’infinito: nessuno aveva voluto fare i conti con l’incertezza radicale, con l’assoluta imprevedibilità del mercato stesso. Un altrettanto lungo periodo, caratterizzato da salvifiche crisi sociali e politiche, da deflazione salariale e dei prezzi e da bassa crescita, viene ora pronosticato come “stagnazione secolare”.
Serve una crescita economica in condizioni di piena occupazione, senza squilibri nei saldi del commercio internazionale né deficit pubblici eccessivi: occorrono rapporti di cambio in grado di bilanciare velocemente i diversi livelli di competitività e misure creditizie coerenti. L’Europa, che non può fare niente di tutto ciò, avrebbe bisogno di cooperazione e di fiducia, con trasferimenti di risorse consistenti dalle aree più ricche a quelle più povere come avviene in tutte le aree monetarie nazionali, dagli Usa all’Italia, alla stessa Germania. Di questo neppure si parla, mentre non si richiede l’assorbimento del riequilibrio degli attivi commerciali e la stessa Bce non riesce neppure a riportare l’inflazione ai livelli desiderati.
Merving King ritiene che sia finita l’epoca dell’alchimia della moneta bancaria, quella in cui si asseriva ufficialmente di poter soddisfare magicamente ogni richiesta di ritiro di fondi a vista da parte dei depositanti, pur a fronte di immobilizzazioni illiquide. Tollerare squilibri strutturali, sottovalutare la imprevedibilità degli eventi e dei comportamenti umani, far mancare la collaborazione e la fiducia sono ancora oggi le tentazioni che minano dalle fondamenta la struttura dell’euro. Un’altra alchimia potrebbe svanire rapidamente, se non si pone rimedio ai quattro pericoli che hanno portato anche l’Europa alla crisi del 2008: tenere ancora insieme con la stessa moneta Paesi sempre più ricchi ed altri sempre più poveri.