La stazza ben potrebbe essere quella di un pugile, ma la precisione d’analisi e l’eleganza sono quelle che l’hanno reso il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi, giungendo a sconfiggere nettamente persino un computer. Oggi che è lontano dalla scacchiera, le sue mosse sono tutte intese a scalzare Vladimir Putin dal trono di Russia, appellandosi senza sosta e a gran voce al sostegno del mondo libero (“e non solo dell’occidente. Non è più in atto una guerra fra est e ovest ma fra il mondo libero e quello che non lo è”).
Garry Kasparov è sbucato negli scorsi giorni fra i testi della libreria dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove ha presentato il suo ultimo volume “L’inverno sta arrivando. Perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati”, edito in Italia da Fandango: un attacco frontale a un regime che lo ha pure sbattuto in galera con accuse farlocche.
Con il sorriso gentile ma la durezza insita in chi è cresciuto nella bolla sovietica, Kasparov non fa mistero: sogna – a occhi aperti – un nuovo corso di Washington come gendarme del mondo libero. Eppure a quel ruolo gli Stati Uniti hanno abdicato in un momento cruciale per la storia del mondo, scandisce con rabbia lo scacchista, e di nuovo con una presidenza – quella di Obama – “decisamente omissiva” nell’arena internazionale: “Altro che Fukuyama, altro che fine della storia con il definitivo trionfo della democrazia. Il problema è che il diavolo non scompare. Durante gli anni dell’amministrazione Clinton, il presidente ha avuto varie opportunità per cambiare il mondo e non ne ha approfittato. Inevitabilmente, fra il 1992 e il 2000 qualcosa dev’essere accaduto se ci siamo risvegliati alla vigilia dell’11 settembre con molti più nemici di quanti ve ne fossero all’arrivo di Bill alla Casa Bianca”.
Con la politica estera di Barack Obama che ha viaggiato su binari decisamente tiepidi e ben poco interventisti e la campagna elettorale di Usa 2016 così polarizzata intorno alla trasbordante personalità di Donald Trump, la domanda è presto detta: “Chi vorrebbe vedere alla Casa Bianca fra qualche mese?”. Lo scacchista ci pensa e rivela la sua vocazione (oggi) minoritaria, da credibile simpatizzante repubblicano moderato: “Vorrei John Kasich, sì; ma so che si tratta di speranza vana”. E allora, nonostante il giudizio tranchant su Bill, “non posso che dire Hillary Clinton. Bisogna anzitutto evitare il pericolo Trump”.
E Ted Cruz, invece? Nicchia, e non poco. Le colpe del 44° presidente a stelle e strisce per Kasparov sono tante, e il beniamino della destra evangelica e dei Tea Party che frigge il bacon sulla canna del fucile deve stuzzicarlo perlomeno in principio, erede com’è – pur non godendo di buona stampa e men che meno di amicizie nel partito – del neoconservatorismo militante e muscolare. Ma certo, considerare l’ex segretario di Stato una timida neo-isolazionista in politica estera sarebbe farle un deciso torto. E così, pur se fra molti dubbi, Kasparov conferma il favore per la Clinton, “il cui vero problema non è lo scandalo delle email partite da un server privato e non dell’amministrazione, quanto invece la mole di relazioni intrecciate dalla Fondazione che porta il suo nome”.
Intervistato da un Adriano Sofri piuttosto dedito al monologo introspettivo (salvo alcuni pregevoli avvitamenti, come quando stende l’ex scacchista con l’etimo di “sibaritico”), Kasparov sceglie le tinte forti per dipingere la sua battaglia contro lo zar del Cremlino: “Il regime putiniano non è solo dispotico, tirannico e corrotto, ma anche mafioso e criminale, dominato dalle logiche familistiche e da un uomo forte al comando. Ho pochi dubbi su Putin perché so cos’è il Kgb e una volta che sei stato un suo agente lo rimani per sempre. Eppure Vladimir Putin è stato a lungo visto come uno dei leader del mondo libero, anche se nel frattempo annientava i suoi oppositori, da interlocutori come Bush, Schroeder, Blair, Berlusconi… Ecco, oggi emergono invece i veri colori del presidente russo. Ora che Putin ha visto il mondo libero indebolirsi, è chiaro a tutti che non ha più bisogno di amici e alleati come una decina d’anni fa ma anzi di nemici”, per ravvivare una retorica a suo uso e consumo in patria. “I dittatori hanno un istinto animale: sentono la puzza di debolezza e sentono bisogno di sangue”.
Ma i muscoli ostentati dal novello zar in un one man show che non replica la formula pur sovietica del Politburo nascondono un scenario drammatico: “L’economia russa è vulnerabile, i burocrati hanno trasferito i loro capitali all’estero” e “il presidente si vanta di successi militari solo virtuali – come dimostra il pellegrinaggio fra Ucraina e Siria -. La propaganda di Vladimir Putin non ha nulla di ottimistico da offrire per il futuro; anzi, i dittatori in genere non guardano all’avvenire, fanno un gioco breve, propongono benefit immediati: ai russi presenta un quadro popolato di nemici da cui soltanto lui è in grado di difenderli”. Le democrazie del mondo libero, insiste Kasparov, devono abbandonare le esitazioni e imbracciare le armi “per non lasciare – come accaduto in Siria – campo libero a Putin” negli scenari più incandescenti e friabili.
Sofri ne approfitta per incanalarsi nel sentiero che tintinna squilli di trombe e riecheggia botti di grancassa tracciato dal suo interlocutore, e se la prende “con quei pacifisti (e sono tanti in sala a giudicare dai brontolii poco velati all’indirizzo del grande vecchio della sinistra extraparlamentare, ndr) che scambiano per guerra anche le operazioni di polizia internazionale. Hanno perso la ragione”. La tenzone si fa poi italiana, con gli strali prevedibilmente riservati alle vestali nostrane del culto putiniano, che vanno “dall’estrema sinistra ai postfascisti, a conferma del fatto che non sono soltanto i vecchi filosovietici” a mantener viva la devozione, ma tanti nuovi arrivati alla corte dell’uomo forte. Kasparov ne approfitta e prova a dar scacco matto a palazzo Chigi: “Anche Matteo Renzi, sedendosi a trattare con Putin, tradisce milioni di ucraini”.