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La Cultura non paga

Questo articolo era stato pubblicato e poi rimosso dopo pochi minuti perché per via dello zelo di una inopportuna follower era stato trasformato in una sterile polemica vero l’organizzazione di A Tutto Volume in totale dissonanza con il senso dell’articolo stesso. Grazie allo zelo della sopra citata signora dal tweet facile e inopportuno, che non ho neanche la fortuna di conoscere di persona, ho avuto però l’opportunità di chiarirmi con il Direttore Organizzativo della manifestazione ragusana.  Manifestazione che a breve entrerà nel vivo con nomi che come ha giustamente sottolineato il Direttore Di Salvo sono un mix tra popolarità e qualità. Quest’anno fa eccezione solo Corrado Augias – rottamatore ante-durante-post litteram – che è stato scelto solo per la qualità. 

Che con la cultura non si mangia si erano già espressi eminenti uomini della politica nazionale e internazionale. Il più blasonato, almeno qui dalle nostre parti, fu Giulio Tremonti. Dominus, al tempo, del Ministero delle Finanze che appunto aveva dichiarato: – Con la cultura non si mangia! – dandosi in pasto alla sinistra talmente acculturata da essere pronta a farsi guidare da Renzi, il Dottor Divago che ci sta guidando in questa eterna campagna di Russia con le famose pezze.

A Tremonti fece eco, poco tempo dopo, nientepopodimenoche il Presidentissimo dei Presidentissimi. Il ner-boruto Barack Obama che ai giovani americani suggeriva: – Studiate economia e non storia dell’arte – per dire che il vento, quanto a “scuola non ne vogliamo manco di calata” (trad. la scuola ci viene difficile come una salita ripida per l’asino), è ormai un fatto da partito della nazione.
Anche le anime belle a sinistra, il left party liberal del “Yes we can, mancu li can” e “Se non ora quan(t)o?” salutano le sudate carte su cui nessuno vuole più stare a scolpirsi il sedere sulla sedia se non in ossequio a calcoli economicisti. Quelli che vogliono la formazione smart, piena di expertise, spolverata, ridotta e mantecata perché oggi fare lo chef è come fare l’archistar. L’intellettuale di riferimento è passato dal tavolo dove si studia, allo studio della tavola.
Il fatto è che ora, pure il sottoscritto, che non ci voleva credere, e che un poco di cultura almeno sotto forma di aperitivo o di corsetta al sabato mattina se la voleva fare, ha dovuto ricredersi sperimentando che se non si può dire che “Con la cultura non si mangia”, non si può non dire che “la Cultura non paga”.
Quest’anno mi sono fatto venire la malaugurata idea di promuovere un libro, che avevo perfino scritto io, presso le scuole secondarie superiori obbedendo a un impulso di vanità combinato a quello di idealismo, stimolato da alcune richieste – assai cortesi – pervenutemi da professoresse interessate a sviluppare percorsi di approfondimento presso i propri istituti. Tutto favoloso. In treno, in aereo su e giù per lo stivale ho raggiunto aule pronte a porgere la loro attenzione. Tutto meraviglioso. Peccato che, a distanza di sei mesi dai miei impareggiabili interventi presso le Scuole dove ero stato chiamato, sottoscrivendo contratti di complessità straordinaria con cui ora sorreggo scrivanie dal precario equilibrio, non ho visto ancora neanche il becco di un picciolo. ‘Nzu, nenti. La cultura cari miei non paga. E stiamo parlando di cifre da mettere sul piatto in una partita di scopa al bar dove ci si gioca la consumazione.
L’unica speranza è che i piccioli che mi spettavano possano servire a sostenere le spese di qualche seduta psicologica che suggerisco ai poveri applicati di segreteria il cui livello di ansia nel compilare e gestire la corpulenta documentazione contrattuale è decisamente sopra la soglia di allerta. Come amano ripetere i suddetti applicati – Qui siamo nel pubblico -.
Da “qui siamo nel pubblico” a “qua siamo nel privato”, la cosa che mi ha fatto ancora più impressione è che la cultura non paga nemmeno se ti proponi di parlare di un argomento gassoso come i tempi dell’oggi: quello delle start-up di cui ho scritto un vademecum potendo contare sulla spocchia di chi ci ha messo le mani in pasta (la metafora culinaria è oggi d’obbligo per stare in società). Pensando che quello delle start-up fosse uno di quegli argomenti talmente economicisti da far gola agli organizzatori degli eventi culturali che -tipicamente- corrono dietro alle tendenze con tanto di cancelletto. – Ma chi me l’ha fatto fare –.
Qualche mese fa prendo e scrivo alla segreteria organizzativa di A Tutto Volume, kermesse culturalissima in quel di Ragusa dove ogni anno, in Giugno, per tre giorni come la Pasqua, la città si riempie di libri e di scrittori. E propongo di presentare il mio libro sulla storia della start-up tecnologica che ho contribuito a fondare e che ho visto fallire. Passano le settimane e dalla segreteria organizzativa non arriva nessuna risposta. Neanche un “Guardi il programma è già completo, saremmo stati molto felici di includere la sua ultima fatica ma non c’è più posto”. Una di quelle frasi educate che vengono inviate  facendo contento e cornuto l’interlocutore. ‘Nzu, niente.
Dopo 6, 7 settimane, con i tempi delle maree e dei noviluni di chi ha il ciclo un poco fuoriposto, mi chiama la segretaria particolare della potentissima macchina organizzativa di A Tutto Volume. La signorina si scusa del ritardo con cui dava seguito alla mia comunicazione e mi informa del fatto che sì posso essere incluso nella manifestazione ma nella sezione “extra”. Siccome è meglio essere chiari, per evitare fraintendimenti, la signorina chiarisce che tra “A Tutto Volume” e “A Tutto ExtraVolume” la differenza è sostanziale. Chi presenta qualche cosa “Extra” deve organizzarsi da solo. Spostamenti, vitto e alloggio e perfino per le sedie per coloro che lo verranno ad ascoltare. – Minchia – rispondo – si chiama Extra perché appunto di incluso non c’è niente? – .
Per la signorina sono solo una riga di un foglietto bianco con dei numeri da contattare. Ma se uno nasce fatto male come il sottoscritto – chi me l’ha fatto fare – è del tipo che va fino in fondo. Infatti, insisto. La signorina allora si scalda leggermente e, risoluta, mi spiega che loro dell’organizzazione davano per scontato che la mia proposta non fosse per “A tutto volume” ma per “Extra volume” perché, insomma, la kermesse è ormai entrata in un circuito nazionale. L’organizzazione viene contattata direttamente dalle case editrici che indicano chi deve esserci e chi no. Insomma, sì c’è una direzione che valuta e decide, ma bisogna coniugare popolarità e qualità. Il cartellone c’è ma non ci si sta tanto a fare la domanda “Di che vogliamo parlare quest’anno?”. Il territorio è una cornice, uno spazio pubblicitario. È come una pagina di un settimanale dove si scrive una recensione. Il fatto è che la cultura non solo paga ma deve dare da mangiare. E di caricati sullo stato di famiglia ne ha già troppi. Non può permettersi outsider. Tant’è.


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