Siamo stati un popolo di santi, navigatori, poeti, ma oggi siamo un popolo di bridgisti. In Italia si contano circa quattro milioni di praticanti dello “sport della mente”, con tanto di Federazione affiliata al Coni. Da sofisticato intrattenimento elitario, il bridge è ormai diventato un fatto di massa. Tempi duri per gli altolocati bridgisti messi alla berlina nel film “Il conte Max” (1957). Resta da cineteca la sequenza in cui Alberto Sordi – un ruspante giornalaio romano – vede crollare miseramente i suoi sogni d’ingresso nella nobiltà. Complice, appunto, una partita di bridge giocata in modo disastroso con i rampolli di improbabili casati, nonostante le raccomandazioni del suo mentore Vittorio De Sica, un aristocratico squattrinato e scroccone.
Purtroppo per lui, il malcapitato e pasticcione edicolante trasteverino non aveva avuto come maestro Eugenio Chiaradia, un professore di filosofia inventore nel 1944 di un rivoluzionario sistema di dichiarazione, il cosiddetto “fiori napoletano”. Per diffonderlo e perfezionarlo, aveva fondato una scuola presso il “Vomero”, un minuscolo circolo del tennis partenopeo. ‘O professore, come veniva chiamato, è l’uomo al quale il bridge moderno deve forse più che a chiunque altro. Dalla scuola di Chiaradia usciranno talenti come Pietro Forquet, Guglielmo Siniscalco, Mimmo D’Alelio, Benito Garozzo. Capitanati dall’avvocato penalista Carl’Alberto Perroux, nel 1956 formeranno – insieme a Camillo Pabis Ticci, Walter Avarelli e Giorgio Belladonna – il mitico Blue Team. L’anno successivo, a New York seppelliranno sotto una valanga di punti la squadra americana nell’incontro decisivo per l’assegnazione del titolo mondiale. Dopo questo “massacro di Fort Apache”, come lo definì la stampa dell’epoca, per un ventennio il Blue Team non avrebbe avuto avversari in ogni angolo del pianeta. Una squadra di campionissimi, insomma, in larga misura espressione di quel ceto medio degli impieghi pubblici e delle professioni liberali in forte ascesa durante il miracolo economico.
Dopo il ritiro o la scomparsa dei mostri sacri del Blue Team, è seguita una fase di appannamento della tradizionale superiorità italica. Ma nel passaggio di secolo è stata rinverdita da una nuova generazione di formidabili giocatori: Norberto Bocchi, Lorenzo Lauria, Alfredo Versace, Giorgio Duboin, Fulvio Fantoni e Claudio Nunes. Sponsor italiani come Angelini (farmaceutici) o Lavazza (caffè) li hanno blindati con contratti sontuosi per farli gareggiare ad armi pari con le corazzate americane, polacche e olandesi del bridge agonistico. Oppure sono sponsor stranieri che li ingaggiano con prebende allettanti (il Principato di Monaco è tra quelli più generosi) a scopo pubblicitario. Nulla di male, ovviamente. Tutto cambia. Solo che adesso diventa più difficile credere in un vecchio e romantico motto dei bridgisti di un tempo, il quale recita: “Se il bridge disturba i vostri affari, lasciate gli affari”.