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Marco Pannella, Ghandi e il verbo della non-violenza

Marco Pannella

In una pregevole ricostruzione del dibattito in corso tra i radicali italiani su Formiche.net, Fernando Liuzzi ha ricordato una decisione di Marco Pannella forse ignota al grande pubblico, ovvero la scelta come logo del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito, dell’effigie di Mohandas Karamchand Ghandi. Come ha osservato Giuliano Pontara, sulla figura del Mahatma (che in sanscrito significa “grande anima”) si sono espressi i pareri più discordi. Winston Churchill lo considerava un sedizioso fachiro orientale. Albert Einstein, al contrario, una personalità dalla statura morale ineguagliabile. Ma forse il giudizio più equilibrato è quello formulato da Ghandi stesso nella sua “Autobiografia”: “Non pretendo di essere perfetto. Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio. È nel corso di tale ricerca che ho scoperto la non-violenza. La sua diffusione è la missione della mia vita”.

Il verbo della non-violenza fu accolto con entusiasmo, per fare qualche nome, da Romain Rolland, Aldo Capitini e Giorgio La Pira. Fu invece bollato come utopico da Jean-Paul Sartre e Franz Fanon, e perfino come reazionario da Herbert Marcuse. Ma di quale non-violenza parlava Ghandi? La domanda è cruciale, perché ha ricevuto risposte disparate e contraddittorie. Ghandi ha sempre distinto la non-violenza come convinzione (“non-violence as a creed”) dalla non-violenza come scelta tattica (“non-violence as a policy”). La prima è quella del forte, che si basa sul rifiuto morale della violenza e che richiede audacia, abnegazione, disciplina e una fede profonda nella bontà della propria causa. La seconda è quella del debole, a cui ricorre chi non si sente abbastanza risoluto ad impugnare le armi. Quest’ultima, a sua volta, non va confusa con la non-violenza del pavido, frutto di pura vigliaccheria o di meschini calcoli egoistici. Nonostante “la violenza non sia lecita, quando -scrive nel 1938- viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione”.

In altri termini, la posizione di Ghandi non può essere identificata con il pacifismo assoluto di Lev Tolstòj né con talune varianti del pacifismo occidentale, come l’obiezione di coscienza al servizio militare e il rifiuto di uccidere non solo i propri simili, ma qualsiasi creatura vivente. Del resto, in Sudafrica Mohandas aveva partecipato attivamente, al fianco degli inglesi, al conflitto con i boeri (1899) e alla repressione della rivolta degli zulù (1906). E nella lotta per restituire al popolo indiano indipendenza e dignità, il Mahatma non cesserà mai di ribadire che “se la disobbedienza civile non è accompagnata da un ‘programma costruttivo’ [cioè da un progetto di riforme economiche, sociali e istituzionali], è un atto criminale e una dispersione di energie”. Giacché “anche la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che occorre pagare per la sua vittoria è l’annichilimento di coloro che ne devono godere”.

Poco prima del suo assassinio per mano di un fanatico indù (30 gennaio 1948), Albert Camus, interrogandosi sulla scelta della non-violenza, aveva scritto che “se l’uomo che spera nella natura umana è un pazzo, colui che dispera di fronte agli avvenimenti è un codardo” (“Ni victimes Ni bourreax”, in “Combat”, novembre 1946). Né vittime né carnefici, appunto: in fondo, non è il drammatico problema che oggi si ripropone per l’Europa di fronte ai fenomeni migratori e allo scontro con l’islam?


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