La definizione attribuita a Churchill e riferita ai Balcani – “producono più storia di quanta ne possano digerire” – si potrebbe forse estendere anche al Caucaso, soprattutto a partire dal processo di disgregazione dell’Unione Sovietica. Adesso l’Armenia accusa l’Azerbaigian, e l’Azerbaigian l’Armenia, per la violazione della tregua in Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena (quindi cristiana) in un Paese abitato dai musulmani azeri. Sullo sfondo le due potenze protettrici, la Russia, per l’Armenia, e la Turchia, per l’Azerbaigian, e un’altra che mira da tempo ad entrare nel gioco geopolitico caucasico, l’Iran.
Il Nagorno-Karabakh è un territorio di 150.000 abitanti, conteso sin dalla fine dell’Urss. Gli armeni votarono per l’indipendenza nel 1991, un passo non riconosciuto dall’Azerbaigian, da cui scaturì una guerra tra i due Paesi che fece più di 20.000 vittime e si concluse solo con una debole tregua nel 1994. L’equilibrio è sempre precario e la scorsa settimana sono scoppiati degli scontri piuttosto violenti tra le due parti, i più sanguinosi degli ultimi anni. Il bilancio, provvisorio, parla già di 44 morti (è stato abbattuto, ad esempio, un elicottero azero con a bordo dodici militari). L’Azerbaigian, che nel frattempo ha conquistato alcune zone montagnose nel Nord-Est del Nagorno-Karabakh, spostando sostanzialmente la linea dell’armistizio, ha dichiarato una tregua unilaterale, ma, secondo gli armeni, gli azeri hanno poi proseguito i combattimenti. Il presidente dell’Armenia Serz Sargsyan ha detto che un’ulteriore escalation delle violenze potrebbe portare ad “una guerra su larga scala” e alcuni report parlano dell’afflusso di volontari da Erevan per combattere accanto ai separatisti. Il ministro della Difesa di Baku, Zakir Gasanov, ha minacciato un assalto militare sulla capitale del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, nel caso in cui gli armeni continuino a colpire aree abitate da civili azeri. Adesso, però, sembra che un nuovo cessate-il-fuoco, concordato tra le parti, stia sostanzialmente tenendo.
Alex Vatanka, politologo del Middle East Institute, spiega che “quello a cui stiamo assistendo non è una novità. Già in passato abbiamo visto una serie di rotture della tregua, anche se i combattimenti degli ultimi giorni sono stati particolarmente duri. Il conflitto in Nagorno-Karabakh è da tempo in una fase di stallo e l’Azerbaigian, in particolare, è spinto a sbloccare questo stallo, anche perché si sta parlando di una regione che si trova in all’interno del suo territorio, per quanto contestata dai due Paesi. Gli azeri pensano che gli occidentali abbiano lasciato che fosse la Russia a dare le carte in Nagorno-Karabah, e credono allo stesso tempo che Mosca sia poco interessata a chiudere definitivamente il conflitto”.
Il presidente azero Ilham Aliyev (nella foto) – la cui famiglia, peraltro, compare nei Panama Papers, per una complicata struttura di compagnie offshore – ha ricevuto il sostegno immediato del suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan, il quale ha garantito che Ankara resterà accanto “ai fratelli dell’Azerbaigian fino alla fine”. I due leader hanno evidenti affinità riguardo alla violazione dei diritti umani e sono particolarmente allergici alla libera stampa, ma i legami tra i due Paesi sono dovuti soprattutto alle risorse naturali di cui il territorio azero è ricco: gas e petrolio. L’Armenia, dal canto suo, è appoggiata dalla Russia (ed è entrata a far parte dell’Unione economica eurasiatica voluta da Mosca), ma Putin, che nelle ultime settimane un po’ ovunque ha assunto i panni del mediatore, ha evitato di infiammare la situazione, invitando i due contendenti a rispettare il cessate-il-fuoco. Una posizione condivisa dall’Occidente, che ha anch’esso legami economici con l’Azerbaigian in materia di energia, ma ultimamente – vedi alla voce Parlamento europeo – ha preso le distanze dalle tendenze autoritarie del presidente azero. Vatanka non crede che il conflitto in questa regione del Caucaso possa avere un impatto sulle relazioni russo-turche. “I rapporti tra Russia e Turchia”, sostiene l’esperto, “sono evidentemente molto tesi, in seguito alla guerra in Siria, ma le tensioni tra Armenia ed Azerbaigian non avranno un grande influenza sul loro sviluppo. I motivi del contendere tra i due Paesi vanno ben al di là di una questione regionale come quella del Nagorno-Karabakh. Per risolverli o, al contrario, esacerbarli, ci vuole ben altro”.
Alcuni analisti sostengono che gli scontri più duri degli ultimi giorni sono dovuti al fatto che i due fronti si sono dotati di armamenti più pesanti (l’Azerbaigian li ha comprati, ironia della sorte, dalla Russia). Altri legano l’escalation alla volontà di Aliyev di mostrare i muscoli, in un momento di difficoltà causato dal crollo del prezzo del petrolio. Vatanka sottolinea un altro aspetto: c’è una potenza che vorrebbe approfittare di questa situazione e cercare di offrirsi come mediatore tra le parti: l’Iran. “Teheran”, spiega il politologo, “ha dei legami storici con tutti e tre gli Stati del Sud Caucaso che hanno dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica, Azerbaigian, Armenia e Georgia, ma non è mai riuscita a giocare un ruolo costruttivo nella regione. Il Nagorno-Karabakh si trova a una quarantina di chilometri dall’Iran e nel Paese persiano, a sud del fiume Aras, c’è una grande comunità di iraniani azeri. Teheran, però, dopo il crollo dell’Urss, ha continuato a mantenere buoni rapporti con l’Armenia, che l’ha aiutata, peraltro, ad evadere le sanzioni internazionali, grazie al proprio sistema bancario. L’Azerbaigian, viceversa, è stato accusato di fare da avamposto alle operazioni israeliane in Iran. Quindi gli ayatollah cercheranno certamente di offrire i loro servizi in questa disputa regionale, ma non è detto che Baku si fidi di questa mediazione. Sinora non l’ha mai fatto. Né la Russia vorrà che gli iraniani giochino un ruolo più grosso nel Caucaso, a meno che non sia Mosca a guidarlo”.