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Panama Papers, tutti i dolori del (non più) giovane David Cameron

Da unico kingmaker del sistema politico inglese a (quasi) liability in grado di far deragliare il partito conservatore e persino l’esito del referendum sulla Brexit del prossimo 23 giugno. Grama la vita del primo ministro britannico, David Cameron.

Ieri, dopo 4 giorni di silenzi e mezze ammissioni sui Panama papers, intervistato su ITV da Robert Peston, Cameron ha ammesso che sì, in effetti, sia lui che la consorte Samantha, avevano delle azioni della Blairmore Holdings, la società offshore del padre del premier conservatore. Questo fino al 2010, quando l’allora candidato premier decise di venderle in vista di un possibile – poi concretizzatosi – mandato di governo. Il tutto, si è affrettato a dire Cameron, pagando regolarmente le tasse sulle transazioni relative alla società al fisco di Sua Maestà.

I laburisti si sono subito lanciati in un attacco totale ai Conservatori e al premier. Il vicesegretario del partito, Tom Watson, ha accusato Cameron di ipocrisia, anche perché in passato il premier aveva definito il tax-dodging, l’elusione fiscale, “immorale”.

La stampa non ci è andata giù più tenera. Dal Guardian, che propone 10 imbarazzantissime domande al premier, ai siti di satira politica, come il Daily Mash, che ha scritto: “Il fatto che suo padre eludeva le tasse, che la sua esosa educazione sia stata pagata con i soldi dell’elusione, che il suo senso di cosa è bene e cosa è male gli sia stato insegnato da un padre elusore e il suo rifiuto di ammettere il suo stesso stato di elusore, non hanno alcuna influenza sulla volontà di Cameron di aggredire l’elusione fiscale”.

La rivista storica della sinistra laburista, il New Statesman, apre invece il numero di questa settimana con un classico “Tories at war”, “I Conservatori in guerra”, con i massimi vertici del partito caricaturizzati come spadaccini che duellano un po’ su tutto: tasse, sostegno ai disabili, Brexit, leadership. Il quadro, quasi un Howard Pyle della seconda metà dell’Ottocento, non è molto distante dalla realtà.

Quella che sembrava una unassailable lead, una leadership incrollabile dei Tories e di Cameron nella politica inglese, sta subendo un colpo dietro l’altro. Lo scorso 18 marzo, le dimissioni a sorpresa del ministro del Lavoro e delle Pensioni, Iain Duncan Smith (IDS) – ex leader del partito all’inizio degli anni Duemila – hanno aperto il vaso di Pandora, dando la stura alla guerra fratricida interna al partito.

Duncan Smith se n’è andato in polemica con i tagli ai disabili nel budget presentato dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ma in molti sospettano che dietro al suo addio ci sia la volontà di avere le mani più libere nel referendum sulla Brexit, di cui IDS è uno dei più accaniti sostenitori. Gli ultimi sondaggi certificano una distanza non incolmabile tra i favorevoli a un Regno Unito in una UE riformata e gli outers, guidati proprio dall’ex ministro, dal Sindaco di Londra, Boris Johnson, e dal leader dello UKIP, Nigel Farage.

In un sondaggio dell’istituto demoscopico YouGov realizzato tra il 29 marzo e il 4 aprile, il 39% dei cittadini UK è favorevole alla permanenza del Regno unito nell’UE, il 38% ne vuole l’uscita e il 23% si definisce ancora indeciso. In particolare sarebbero la fascia più anziana della popolazione nelle contee rurali e l’astensionismo dei giovani a preoccupare Cameron: da ieri su tutti i social network del numero 10 di Downing Street ci sono le istruzioni per iscriversi ai registi di voto per i più giovani, ed è emerso che il governo ha fatto stampare volantini e materiale elettorale a favore del voto “in” per un totale di 9 milioni di sterline.

Ma anche nella corsa a sindaco di Londra, il partito non se la sta passando bene. Zac Goldsmith, erede della famiglia più euroscettica del Regno Unito, sembra in chiaro svantaggio contro il laburista Sadiq Khan. E il dichiararsi euroscettico nella più filoeuropea delle città inglesi, certo non gli ha giovato. Così come una video-intervista in cui ha dimostrato di non conoscere bene la città e, cosa ben più grave per i londinesi, le sue squadre di calcio.
Cameron vacilla. La leadership challenge non sembra più il sogno di una notte di mezza estate di Boris Johnson, ma una realtà sempre più concreta. Il tutto a meno di un anno dal trionfo elettorale del maggio 2015.

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