Dire che l’Europa non sarebbe in grado, oggi, di fronteggiare una forte turbolenza nel mercato dei titoli di stato italiano è dire un’ovvietà. Ma quando a dirlo è Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, forse è il caso di cominciare ad allacciare le cinture.
Anche perché, oggi, non è indispensabile essere seduti al vertice della banca centrale tedesca per accorgersi che una massa di nuvole si sta ammassando nel cielo sopra l’Europa (senza che, peraltro, si siano diradate quelle che si librano in altri cieli…).
Ad Atene il set per un remake del film già visto nel luglio scorso è ormai allestito. Il negoziato tra governo ellenico, creditori e Fmi che dovrebbe concludersi con l’accertamento che Atene ha attuato gli impegni richiesti per il versamento della tranche degli aiuti concordati nel luglio 2015 si trascina da almeno sei mesi (avrebbe dovuto concludersi addirittura nel novembre scorso secondo le ottimistiche dichiarazioni di allora del governo ellenico) e ieri Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ha avvisato che ci vorrà ancora tempo prima di arrivare a un accordo; notizia inquietante se non addirittura funesta, visto che nel prossimo mese di luglio scade una rata di debito di Atene verso la Banca centrale europea, mentre già oggi ci sono segni di una nuova crisi di liquidità: il governo ha obbligato gli enti ospedalieri, già in difficoltà a far fronte ai debiti verso i fornitori, a versare su un conto presso la Banca di Grecia i saldi di cassa, a disposizione dell’amministrazione centrale, e circolano voci di dimissioni del ministro delle Finanze, e capo negoziatore con la Troika, Euclide Tsakalotos.
Solo che il remake rischia di essere una versione incattivita dell’originale, e questo per ragioni oggettive.
L’accordo del luglio 2015 è stato essenzialmente un modo – condiviso da tutte le parti interessate – per guadagnare tempo senza affrontare davvero i problemi reali ma innestando invece una bomba a orologeria. I tassi di disoccupazione che non accennano a calare, ininterrotte chiusure di aziende (“lucchetti”, li chiamano qui), una situazione sociale e politica che può solo mettere in fuga ipotetici investitori stranieri (un solo esempio: la cessione della società di gestione del porto del Pireo alla cinese Cosco, pur concordata alla presenza di Alexis Tsipras, non si materializza perché i lavoratori della società bloccano i lavori del consiglio d’amministrazione che dovrebbe dare attuazione a quanto concordato), le banche che continuano a operare in regime di sospensione della libera circolazione dei capitali. In queste condizioni, l’dea che dal 2018 la Grecia possa produrre un surplus del bilancio pubblico pari al 3,5% del Pil prima degli oneri finanziari, appartiene alla fantascienza.
Né Tsipras né i creditori hanno un reale interesse a costruire una soluzione effettiva del problema greco, e questo per ragioni terribilmente concrete, a cominciare dal fatto che qualsiasi tentativo di rimettere in carreggiata il paese richiederebbe un programma pluriennale di riforme economiche e soprattutto istituzionali che non si vede chi possa gestire e da chi possa essere finanziato.
Quanto a Tsipras, nonostante l’esodo della “piattaforma di sinistra” di Syriza l’estate scorsa, continua a galleggiare su una maggioranza dove predomina un miscuglio di sindacal-statalismo, di “sessantottismo” e di nazionalismo estremo: come questo si possa conciliare con l’obiettivo di “rilanciare” l’economia (che altro può voler dire un surplus del 3,5% a breve termine?) di un paese integrato nel nocciolo duro dell’Europa, quello dell’Euro, non è dato sapere. Per conservare il potere (la sua ovvia se non esclusiva preoccupazione), Tsipras ha una disperata necessità di “strappare” subito ai creditori risultati da vendere all’opinione pubblica interna come dimostrazione dell’affrancamento della Grecia dal “giogo straniero”; per esempio, un accordo pur vago e generico, sul “taglio” del debito, che non comporterebbe nessun beneficio a breve-medio termine per la disastrata economia ellenica ma regalerebbe al capo di Syriza l’aureola dell’eroe nazional-popolare.
Quanto ai creditori, non c’è bisogno di ricordare le tensioni centrifughe che attraversano l’Europa, la difficoltà di far trangugiare a più di un paese dell’Eurozona un ulteriore “regalo” alla Grecia (anche se i “regali” dei primi due accordi sono stati prevalentemente per le banche – soprattutto di Germania e Francia – e molto meno per la Grecia). Né va trascurato il rischio che un significativo taglio del debito ellenico verso le istituzioni europee comporta per la credibilità e quindi per la futura tenuta della moneta unica.
Ora Tsipras (esattamente come nell’estate scorsa) la butta in politica esigendo imperiosamente un vertice dei capi di governo dell’Eurozona, che superi le difficoltà di natura “tecnica” che rendono ancora lontana la chiusura dei negoziati per il versamento del denaro necessario al pagamento della rata di debito di luglio. Una richiesta che ha tre motivazioni. Innanzitutto quella di apprestare un palcoscenico per la messa in scena, ad uso soprattutto interno, di una prova di forza da parte del premier ellenico; in secondo luogo un calcolo politico: il leader di Syriza conta sul fatto che l’Europa non potrà permettersi un Grexit nell’imminenza del referendum sul Brexit (ci si perdoni il bisticcio), ed anche sul fatto che Barack Obama per ragioni geopolitiche “non permetterà” che gli europei lascino uscire la Grecia dal club (evidentemente Tsipras non dà peso alla circostanza che oggi l’autorità di Obama, a sei mesi dalle elezioni presidenziali Usa, è assai contenuta, né a quella che oggi Angela Merkel è meno forte, in patria, di quanto non fosse un anno fa.
I fatti diranno presto se i conti del premier ateniese sono quelli giusti); la terza motivazione risiede nel fatto che lo stesso Syriza si è infilato in un vicolo cieco riducendo drasticamente il proprio spazio di manovra negoziale a livello “tecnico”, nel momento in cui, l’estate scorsa, ha rivendicato alla Grecia il diritto “sovrano” di scegliere le concrete misure da adottare per raggiungere gli obiettivi macroeconomici (surplus del 3,5%) concordati con i creditori. E queste misure si traducono in una continua crescita della pressione fiscale accoppiata a ulteriori tagli delle prestazioni sociali, una ricetta per il definitivo strangolamento dell’economia ellenica, benché queste stesse misure siano giudicate, soprattutto dal Fmi, insufficienti per raggiungere l’agognato surplus; per inciso la franchigia per le imposte dirette in Grecia è ancor oggi superiore di mille Euro a quella tedesca. Decise riforme in direzione della liberalizzazione economica e sociale, e del superamento dell’inefficienza della macchina statale, pur disperatamente necessarie per garantire un qualsiasi futuro al paese e pur tali da consentire potenzialmente un alleggerimento della pressione fiscale, sono testardamente osteggiate da Syriza poiché inciderebbero sulla sua base di consenso.
Per l’Europa, o quel che ne resta, la partita con la Grecia di Syriza si profila come un gioco a somma negativa. Cedere alle pressioni volutamente teatrali di Tsipras significherebbe offrire un incentivo in più ai fautori del Brexit, e in generale alle potenti spinte verso la dissoluzione dell’Unione europea. D’altra parte, lasciare che la Grecia vada in default a luglio riaprirebbe la questione della tenuta dell’Euro, anche perché scatenerebbe molto probabilmente una tempesta nei mercati del debito sovrano (sempre che questa non si scateni ancora prima).
Si ritorna così alla dichiarazione di Weidmann ricordata all’inizio. Ovvia, ma non perciò meno preoccupante. Fasten your seat belt.