Aprile è tempo di grano, di vento e di morte. È ad Aprile che si muore. L’arrivo della primavera con il suo soffio caldo e umido che viene dal mare ti toglie il respiro. Un’ultima volta. Le spighe piegate dal vento danno il senso del distacco, della perdita. Dello sfuggire del presente che rimane indietro. Non basta la mano ferma del fotografo che inutilmente cerca di ridurre il tempo dell’esposizione. C’è un prima e c’è un dopo che è muto.
Quanto silenzio in questa foto. Quanta solitudine in quel casolare cui fa compagnia un solo e unico carrubo. Eppure quel vento avrà fatto un gran chiasso: urlando incuneandosi tra le cave, strusciandosi tra le spighe, battendo le foglie dei carrubi, durante la sua folle corsa verso il mare a bagnarsi sul pelo delle onde, disegnando finti gabbiani su di esse.
Corre il vento dopo che ha rubato vite piene di affetti, dopo che ha fatto incetta di storie, di presente, dopo che ha lasciato sulla terra lacrime, ricordi e nostalgie. Liberatosi dello scirocco che portava in grembo quando dal mare è venuto, il vento, adesso leggero, si permette di volteggiare come un aquilone, si permette le spericolatezze delle rondini che ogni sera, al principiare dell’estate, si esibiscono con le loro picchiate tra i ficus centenari delle ville comunali.
È giallo il grano ed è maturo. La tenerezza delle sue spighe verde, impettite come militari forti di un’acerba fanciullezza cara a Venere e Mercurio con la loro estetica fatta di bellezza e intuizione, lascia il posto ora alla maturità della raccolta e della provvista. Allo sfasciarsi delle spighe in granelli pronti a disperdersi ovunque. Sulla battigia di Costa di Carro in Sicilia.
Quel grano a Costa di Carro di Luigi Nifosì
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