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I rischi per l’export Ue arrivano dagli Usa più che dalla Cina

Uno dice la Cina e, mediamente, si preoccupa, essendo il tanto temuto rallentamento cinese fonte di svariate ansie nel nostro tormentato cronicario finanziario. E invece ho scoperto leggendo l’ultimo bollettino della Bce che gli europei farebbero bene a pregare per la buona salute dei nostri cugini americani piuttosto che per quella dei nostri compari cinesi, per la semplice circostanza che la nostra buona salute, e segnatamente del nostro export, dipende assai più dai primi che dai secondi.

Il risultato è frutto di un’analisi su quelle che la teoria economica chiama catene produttive globali, ossia osservazioni statistiche relative non tanto e non solo ai saldi finali dell’import e dell’export, ma su come le merci vengono prodotte e da chi e soprattutto su come si costruisce il valore nel corso del loro peregrinare man mano che da semplice materia prima un bene diventa quello che infine è.

L’analisi conclude che “se si considera la destinazione finale delle esportazioni dell’area dell’euro, il valore aggiunto prodotto nell’area (ivi compreso quello contenuto in beni o servizi ulteriormente trasformati e riesportati dai grandi partner commerciali) è assorbito in larga parte dalle economie avanzate, specie dagli Stati Uniti. Di conseguenza, è probabile che l’area dell’euro risenta con relativa intensità degli andamenti della domanda negli Stati Uniti ma in misura inferiore delle dinamiche osservate, ad esempio, in Cina, paese che riesporta una quota dei prodotti provenienti dall’area”.

Questa considerazioni ha notevoli implicazioni per le nostre economie, pure al netto della facile osservazione che rileva poco sapere che siamo in più stretta connessione con gli Usa rispetto alla Cina, se poi scopriamo che la stessa cosa vale per gli Usa e la Cina. Voglio dire che se la buona salute degli americani dipende dai cinesi, e la nostra dipende dagli Usa, alla fine dei conti il risultato non cambia. In un mondo profondamente globalizzato come il nostro chiunque sia il malato contagia tutti.

Detto ciò, alcuni temi dell’analisi meritano un pur succinto approfondimento. A cominciare dal significato di catena internazionale di valore, oggi assai di moda e altrettanto frainteso. La globalizzazione ha consentito alle imprese di “specializzare la produzione in diversi stadi e su più paesi, beneficiando della maggiore divisione internazionale del lavoro”. Accanto ai vantaggi – minori costi di produzione e interscambio di conoscenza – c’è lo svantaggio che è più difficile capire da dove può arrivare un potenziale contagio. Faccio un esempio: un’analisi classica dei flussi commerciali che si limiti a osservare che un paese A esporta X verso un paese B, dedurrà da questo saldo che un calo dell’import del paese B avrà effetti negativi sul paese A.

Questo flusso però non è mai così lineare come può apparire. “I dati sull’interscambio lordo conteggiano due volte una parte dei flussi commerciali, poiché le esportazioni comprendono anche input importati e una quota del prodotto esportato finisce per tornare nel paese di origine”. Quindi, tornando al nostro esempio, se il paese A importa dal paese B una materia prima e poi vi esporta un semilavorato o un prodotto finito, il tutto viene sommato nella contabilità commerciale falsandone di fatto il valore. “Pertanto, qualsiasi analisi che attinga a dati sul commercio lordo potrebbe sovrastimare la rilevanza di alcuni partner commerciali e sottostimare quella di altri”.

E questo è il punto saliente.

L’analisi si è svolta su quattro paesi partner dell’area euro, quindi Usa, Cina, Regno Unito e Russia. La prima informazione che possiamo trarre osservando un grafico riguarda i flussi di export. Dal 2009 si osserva un peso crescente dell’export extra EZ rispetto a quelli intra EZ, che nel complesso appaiono stagnanti. Se guardiamo agli indici, notiamo che fatto 100 il valore dell’export intra EZ nel 2000, quest’ultimo è arrivato a circa 125 nel 2015, mentre quello extra Ez oscilla intorno a 175. Quindi se è vero, come scrive la Bce che “la creazione dell’Unione economica e monetaria ha recato benefici al commercio all’interno dell’area dell’euro”, è vero pure che ne recati molto di più al commercio extra EZ. E questo, sempre secondo la Bce, è dipeso anche dall’euro che “ha rafforzato il mercato interno per gli esportatori dell’area dell’euro e agevolato le transazioni transfrontaliere”. La qualcosa somiglia più a un’opinione, ma tant’è.

L’effetto che di sicuro ha comportato la creazione dell’euro sul commercio è che l’area è diventata più sensibile agli andamenti economici esterni. Tale tendenza si osserva notando come la domanda interna sia cresciuta di pochi punti percentuali fra il 2000 e il 2015, mentre le importazioni sono praticamente raddoppiate. In tale contesto le catene globali di valore influiscono notevolmente nel modo in cui gli shock si trasmettono nell’area. “Se un settore fornitore di prodotti intermedi è colpito da uno shock dell’offerta (la distruzione di un impianto produttivo in seguito a una catastrofe naturale), gli effetti sarebbero avvertiti anche dai settori a valle, che dipendono dagli input del comparto in questione; è quanto accaduto in Giappone dopo lo tsunami del 2011”. Si verifica, insomma, quello che gli esperti chiamano effetto eco. In questo propagarsi che somiglia alle onde sismiche, sarebbe estremamente difficile per qualunque paesi non subire effetti, visto lo stato dell’interconnessione globale.

Un’altra informazione utile la traggo da un altro grafico che misura le esportazioni dirette dei principali paesi europei calcolate sul totale e suddivise nelle aree di export a cui fanno riferimento. Dal grafico è chiaramente osservabile il peso preponderante degli Stati Uniti nelle esportazioni europee, malgrado in alcuni paesi come la Germania sia quantitativamente equivalente a quello cinese. Se confrontiamo questo grafico con quello delle esportazioni indirette si nota subito il punto saliente: “Gli Stati Uniti sono il più importante mercato di destinazione per le esportazioni dirette, mentre Cina e Regno Unito rappresentano una percentuale più elevata delle esportazioni indirette. Ne emerge che l’area dell’euro mostra una connessione relativamente stretta con l’evoluzione della domanda interna negli Stati Uniti; per contro, Cina e Regno Unito agiscono maggiormente da riesportatori dei prodotti provenienti dall’area. Quanto alla Russia, le esportazioni dirette prevalgono su quelle indirette”.

Cosa ci dice tutto questo? Innanzitutto che “oltre un quinto delle esportazioni lorde di Cina e Regno Unito proviene da mercati esteri”. In pratica sono paesi trasformatori più che produttori. In Cina, per dire, il contenuto di importazioni delle esportazioni è aumentato dal 14% della seconda metà degli anni ’90 al 22% del periodo pre crisi. Al contrario in Russia è diminuito.

Ancora più interessante notare è che il Regno Unito ha una notevole quota di valore aggiunto estero che proviene proprio dall’area euro, che pesa circa la metà del totale delle sue “importazioni esportate”, mentre gli altri paesi hanno una quota di prodotti dall’EZ assai più ridotta. E c’è un’altra differenza. Mentre la Cina riesporta le sue importazioni europee principalmente in Canada e Stati Uniti, il Regno Unito riesporta il 43% del suo valore aggiunto nell’eurozona. Insomma, i legami commerciali fra noi e i britannici, per non parlare di quelli finanziari, sono assai più profondi di un qualunque Brexit. E dopo l’eurozona, fra i partner commerciali ci sono gli Usa, non i cinesi.

Questo ci riporta all’inizio della storia: “Una turbolenza della domanda negli Stati Uniti eserciterebbe probabilmente un impatto commerciale considerevole sull’EZ attraverso gli scambi bilaterali e gli effetti eco, mentre un analogo shock in Cina inciderebbe in misura inferiore sull’attività economica dell’area”.

Una simulazione conferma questa ipotesi. Uno shock dell’1% sul Pil negli Stati Uniti peserebbe quasi lo 0,3% su quello dell’EZ, con effetti più pesanti per la Germania, -0,35 e poco più di 0,2% per l’Italia. Mentre se la stessa cosa accadesse in Cina, l’Eurozona “soffrirebbe” una perdita di meno dello 0,1%.

Attenti però a pensare che possiamo disinteressarci del rallentamento cinese. Il brutto dei contagi è che non si sa mai da dove arrivino.

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