“Cosa dobbiamo apprendere dai fatti della storia?” scriveva più o meno così Voltaire nella primavera del 1772, analizzando le cause e le conseguenze del massacro degli Ugonotti del 1572. La conclusione dell’intellettuale illuminista fu che l’evento scaturì dall’incontrollata esplosione di superstizione e di pregiudizio in una popolazione esasperata. Per la Francia, invece, la conclusione fu la dannosa fuga di una comunità assai produttiva.
Non sappiamo oggi in quale altra forma avrebbe potuto scaricarsi la tensione sociale accumulata in Francia nella seconda metà del 1500, che portò a quel massacro, ma possiamo constatare come nei secoli successivi sia cresciuto l’impegno dei governi a indirizzare e mitigare le tensioni sociali, evitando dannose ricadute sui sistemi economici nazionali e soprattutto sui governi in carica.
LA BUONA GESTIONE DELLE RISORSE PUBBLICHE
La buona gestione delle risorse da parte dei governi è sempre stato un tema di confronto, anche aspro, tra le forze politiche. Tema capace di generare tensioni e pregiudizi dall’antichità ai giorni nostri. In generale, mentre le forze di governo gestiscono la cosa pubblica proclamandone il buon governo, le opposizioni le attaccano criticandone le scelte gestionali, mettendo in dubbio l’imparzialità della gestione e denunciando gli sprechi e le ruberie, spesso a ragione.
Anche il fenomeno italiano, ma non solo, dell’”antipolitica” ha alla base molte storie di cattiva gestione delle risorse pubbliche. Le “tangentopoli”, i privilegi della “casta”, le acrobazie dei “furbetti”, hanno portato non soltanto a una generalizzata sfiducia verso i governi in carica, ma anche e più generalmente verso il sistema politico. Ciò ha determinato la progressiva riduzione dell’affluenza al voto e la nascita di formazioni politiche assai critiche verso i responsabili della gestione della cosa pubblica, da affrontarsi con la secessione o il federalismo, piuttosto che con l’apriscatole. Soluzioni più o meno drastiche e diverse tra loro, ma ciò che hanno avuto in comune le iniziative politiche degli ultimi vent’anni almeno, è stata la ricerca di soluzioni in grado di assicurare il consenso elettorale alle forze che le attuavano, realizzando contemporaneamente due azioni di segno opposto: la distribuzione di vantaggi economici alla propria base elettorale da un lato, la riduzione della spesa pubblica dall’altro.
LA RIDUZIONE DELLA SPESA PUBBLICA, UNA STORIA DI STUDI E COMMISSIONI
La consapevolezza che la spesa pubblica italiana potesse e dovesse essere ridotta, riducendo gli sprechi con una gestione oculata, parte dall’unità d’Italia, ma ne risparmio ora l’antologia puntando direttamente agli ultimi trent’anni, che sono stati caratterizzati da tre diverse stagioni di spending review, ciascuna con un metodo e un protagonista. La prima stagione inizia nel 1986 ed è la stagione delle Commissioni. Il ministro del Tesoro Giovanni Goria cerca, strano a dirsi, di conoscere meglio la struttura della spesa pubblica e nomina un’apposita Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica per studiarla. Piero Giarda che la presiede è il protagonista di questa stagione: in oltre dieci anni produce molti studi diagnosticando, in varie forme, la cattiva gestione e lo spreco. Sin da allora scrive che occorrono misure strutturali di buona gestione della spesa pubblica i cui fattori abilitanti sono tre: la qualificazione degli addetti, le norme abilitanti e un’adeguata programmazione degli interventi, il tutto in un quadro di stabilità di governo. Ma il terremoto politico che segue gli anni di tangentopoli bloccherà l’adozione della ricetta Giarda di trent’anni fa e soprattutto non creerà quel quadro di stabilità necessario ad abilitare maggioranze di governo in grado di gestire il Paese con un orizzonte temporale superiore ai 13 mesi, che è la durata media dei governi italiani del dopoguerra. Così, la ricerca del consenso politico-elettorale a breve termine diventa causa ed effetto della mancata applicazione di queste semplici misure, anzi ne accentua le criticità, polverizzando la gestione con la riforma del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nel 2001 anche per rendere più federale la gestione della spesa pubblica.
In Italia è dunque la radicata cattiva gestione delle risorse pubbliche (favorita da una selva di norme, dalla burocrazia e dall’assenza di adeguati controlli) a portare all’esasperazione della Spending Review: il Governo deve porre mano rapidamente e drasticamente alla spesa pubblica e affida questo compito “tecnico” non al Ragioniere generale dello Stato (il funzionario più elevato in grado, deputato alla gestione dei conti pubblici) e neppure al ministro dell’Economia, ma a un Commissario alla Spending Review, che faccia a quest’ultimo anche da “parafulmine” mediatico (una “protezione” di cui i ministri Tremonti e Visco non hanno beneficiato).
Ecco fiorire così le misure più rapidamente realizzabili e simboliche (il taglio delle auto blu, il taglio degli stipendi dei manager e gli altri tagli lineari, i prezzi standard per legge, ecc.), che aggiungono misure contingenti e anche estemporanee alla selva preesistente, cercando di regolare per legge anche le regole basilari dell’economia di mercato.
Le stagioni della Spending Review si susseguono, ma la burocrazia romana, da decenni abituata a gestire la cosa pubblica rincorrendo il governante di turno che può solo attuare politiche di breve periodo, l’ha già bollata come uno dei numerosi “adempimenti” da progettare, eseguire e modificare o cancellare con il successivo governo. Insomma uno spirito da “facciamo presto questa cosa, che tanto poi anche questa stagione passa”.
COMMISSARI E LEZIONI DELLA STORIA
Nel 2011 il Governo Monti nomina Enrico Bondi Commissario alla revisione della spesa pubblica. Il manager ha una mira infallibile nell’individuare le falle dei bilanci degli enti che analizza, ma poi fa progettare i “prezzi standard” a funzionari che cercano di imporli perpetuando i tagli lineari. Ed evidentemente non prende in grande considerazione le lezioni della storia più recente studiata da Giarda (con il quale infatti la stampa riferiva esistere una contrapposizione), ma neppure quelle della più antica e romana. Ci riferiamo ai prezzi standard imposti per legge nel settore sanitario (art. 17, comma 1, lettera a del decreto legge 98/2011): la norma infatti non aveva a mente l’illustre precedente romano, l’editto di Diocleziano sui prezzi massimi del 301. Cercando di contenere l’inflazione, sotto la spinta del popolo esasperato dall’eccessiva monetazione attuata dagli imperatori per corrompere soldati e funzionari, Diocleziano emanò un editto che fissava i prezzi massimi di acquisto delle merci, indipendentemente dai valori di mercato. Proprio quanto previsto dal decreto legge 98 di Bondi, che prevedeva di ridurre il valore i contratti vigenti, senza riguardo all’eventuale affidamento diretto o in seguito a gara europea. Il risultato? La norma nel 2013 è stata dichiarata da disapplicare dalla Giustizia amministrativa a cui si sono rivolte le imprese danneggiate. Anche l’editto di Diocleziano fu ignorato e non raggiunse le finalità con cui nacque, poiché nel 305 l’economia non era ancora stabilizzata, nonostante l’editto di Afrodisiade del 301 che stabiliva la pena di morte per gli speculatori.
Si dice che chi conosce la storia non sia condannato a ripeterla, ma evidentemente, talvolta la conoscenza non basta.
Ma la storia delle Spending Review non si ferma qui. Dopo un interim al Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, ecco giungere dal Fondo Monetario Internazionale, nell’ottobre 2013, il Commissario Carlo Cottarelli, che subito avvia dei tavoli di lavoro orizzontali (per comparto) e verticali (per materia) con il compito di analizzare le opzioni sulla spesa pubblica e di proporre misure che portino complessivamente a 32 miliardi di risparmi senza ridurre i servizi pubblici.
Cottarelli però, che evidentemente apprezza le lezioni della storia, coglie immediatamente l’approccio strutturale della proposta di definire un nuovo sistema nazionale degli approvvigionamenti pubblici contenuta nel documento finale del tavolo di lavoro “beni e servizi” che ho guidato quando ero amministratore delegato della Consip.
Due le proposte di interventi “strutturali” che avanzammo: la prima era quella di riservare a pochi soggetti molto qualificati le gare più importanti (la riduzione delle stazioni appaltanti). Sì, ma quanti devono essere questi “pochi” soggetti molto qualificati? Ipotizzammo che potessero essere un numero compreso tra 20 (il numero delle regioni) e 50 (un numero notevole ma non eccessivo). Il Presidente Renzi ha poi fatto propria l’opzione, annunciando nel Consiglio dei Ministri del 24 aprile 2014, con il “decreto competitività e giustizia sociale”, il progetto di ridurre a 35 le grandi stazioni appaltanti.
Si avviava così quello che abbiamo chiamato il “nuovo sistema nazionale degli approvvigionamenti pubblici”, caratterizzato dagli specialisti di grandi gare accanto a tutti gli altri, abilitati a gestire gli approvvigionamenti di più ridotto valore.
La seconda proposta strutturale che avanzammo fu quella di superare i tagli lineari riducendo, proporzionalmente, gli stanziamenti per acquisti pubblici agli enti meno efficienti nella spesa e non riducendoli affatto (anzi aumentandoli) agli enti più efficienti sul fronte degli acquisti, fornendo loro così una sorta di “risarcimento” dei tagli lineari subiti in passato nonostante l’efficienza. Criteri parametrici (percentuale di spesa gestita tramite le centrali acquisti, etc.) individuavano i soggetti destinatari della misura.
È stato entusiasmante contribuire ad avviare la trasformazione del sistema nazionale degli approvvigionamenti che Yoram Gutgeld, da marzo 2015 terzo Commissario, ha immediatamente colto nel suo programma di riforma strutturale della spesa pubblica. Ed è proprio Gutgeld, commissario alla revisione della spesa dal basso profilo, a gestire il più importante progetto di riforma strutturale della spesa pubblica per beni e servizi, in grado, questa volta sì, di riportare la fiducia dei cittadini nel Governo e senza stravolgere le regole del libero mercato. Gutgeld ama ripetere, anche per marcare la distanza dalle misure una tantum, che la revisione della spesa è un programma triennale: non è dunque una dieta forzata da 7 chili in 7 giorni, ma un piano per ristabilire una corretta e sana alimentazione. E infatti sta proseguendo e perseguendo con tenace determinazione il progetto di creazione dei 35 specialisti di grandi gare, con la consapevolezza che – come scrisse Pier Carlo Padoan nel 2011 – gli approvvigionamenti pubblici sono uno degli strumenti di politica industriale in mano ai governi contemporanei.
LA COSTITUZIONE DEL “POST-DOPOGUERRA” PER LA QUALITÀ DELLA SPESA PUBBLICA
Su questo fronte, tra le riforme strutturali del Governo Renzi, spicca la riforma costituzionale in cui la revisione del Titolo V ristabilisce la sovranità nazionale in materia di spesa pubblica. Una misura necessaria, dopo che le articolazioni territoriali del nostro Paese ci hanno mostrato numerosi ed eclatanti casi di cattiva gestione della cosa pubblica: dai diamanti lombardi in Tanzania, ai rimborsi elettorali milionari, al Batman del Lazio, alle varie sanitopoli, affittopoli, rimborsopoli, fino ai vitalizi elargiti e via dicendo, dimostrando che il malcontento popolare sulla cattiva gestione delle risorse pubbliche non è esclusivo appannaggio del governo nazionale, ma può essere anche di prossimità.
Ecco dunque un ulteriore motivo che sostiene la profonda riforma costituzionale avviata dal Governo Renzi, che coglie l’essenza della ricetta Giarda: la migliore gestione della cosa pubblica discenderà non soltanto dall’eliminazione della polverizzazione gestionale introdotta nel 2001 con la riforma del Titolo V, ma soprattutto dalla riconducibilità politica dei risultati della gestione – accountability – che sarà tanto più evidente in un sistema istituzionale più fortemente maggioritario, e pertanto stabile, in grado di fornire più ampi orizzonti temporali per le scelte di buona gestione. Molto di più delle misure contingenti di Spending Review come i tagli lineari.
Insomma, la riforma costituzionale per l’Italia marcherà l’inizio del “post dopoguerra”, superando la Costituzione rigida e quasi impossibile da modificare scritta dopo la seconda guerra mondiale, restituirà la fiducia nelle Istituzioni ai cittadini, la cui pazienza è stata messa a dura prova dalla storia politica e gestionale del nostro Paese, e farà diventare l’Italia un Paese ancora più europeo.
Poiché come scrisse Goethe: “guardando l’antichità non impariamo nulla, ma diventiamo qualcosa”.