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Chi sono i grigi campioni d’America anti Trump

john kasich

Usa 2016 è, in fin dei conti, sempre più una questione cromatica. Dopo il primo presidente nero alla Casa Bianca potrebbe arrivare il primo inquilino arancione, ironizzano i media a stelle e strisce prendendosi beffa (ma non certo scalfendo la coriacea corazza) di Donald Trump e della sua bizzarra capigliatura.

A provare a fermare l’avvento del discusso e discutibile tycoon e dei suoi toni catastrofici – prim’ancora che il boschiano blu elettrico dei tailleur preferiti di Hillary Clinton – ci prova un’interessante e variegata scala di grigi. Grigi che, beninteso, nulla hanno a che vedere con le sfumature di successo in libreria e sul grande schermo. Anzi.

È semmai, infatti, la forza tranquilla, abbottonata, moderata, dialogante – e, in ultima analisi, titolata – che gioca il tutto per tutto per fermare l’inarrestabile avanzata dell’esplosivo e catastrofico magnate dell’immobiliare.

Con Marco Rubio fuori dalla corsa repubblicana, lo scettro dell’establishment che ammicca al centro è rimasto nelle mani del sessantatreenne governatore dell’Ohio John Kasich, il terzo incomodo nella contesa fra outsider in atto fra Trump e il senatore texano Ted Cruz, il laureato ad Harvard beniamino degli evangelici che frigge il bacon sulla canna del fucile.

In Kasich, terzo, testardo e inaffondabile candidato nella famiglia repubblicana sono riposte le speranze (invero ridotte al lumicino) di un harakiri collettivo dei pretendenti alla nomination per lasciare spazio a una contested convention, la convention estiva aperta durante la quale – in assenza di una chiara maggioranza assoluta dei delegati a sostegno di un unico nome – con felpata sapienza democristiana da Prima Repubblica si rimescoleranno le carte e verrà fuori l’uomo della provvidenza.

Tutte le strade – in questo senso – portano a Paul Ryan, apprezzato e istituzionale speaker della Camera e già sfortunato candidato vicepresidente di Mitt Romney, quattro anni fa. Anch’essi pedine del grigiore No-Trump.

Kasich sa di non potere realisticamente ambire alla nomination, anche laddove i delegati nel frattempo assegnati agli sfortunati Jeb Bush e Rubio dovessero optare per sostenerlo in seconda battuta alla convention in programma a Cleveland; senza contare che v’è una regola, aggiornata al rialzo nel 2012, per cui un candidato deve aver vinto le consultazioni in otto diversi Stati per poter strappare la nomination. La norma è stata ripescata nelle ultime ore da Cruz, che sogna di spegnere le ambizioni di Kasich e sottrargli le costituencies più anti-trumpiane che ancora lo seguono (tuttavia, le regole della convention possono ben essere modificate dall’organigramma del partito alla vigilia dell’appuntamento). Se – come appare – quello di Kasich sarà un martirio, esso è l’ultima carta da giocare per non consegnare il GOP nelle mani di The Donald. E infatti il governatore centrista ha cominciato a ripeterlo come fosse un mantra: a luglio, Trump “non avrà i numeri; e allora sì che ci sarà da divertirsi”. As Ohio goes so goes the nation, del resto.

L’altro sprazzo di compito grigiore che è apparso come un guizzo nel panorama del tardo inverno statunitense scaldato – anche a sinistra – da ben altri personaggi è Merrick Garland, il ragionevole moderato che Barack Obama ha scelto per il seggio vacante della Corte Suprema statunitense e per vincere – con una carta apartitica e di specchiata competenza  il braccio di ferro con la maggioranza repubblicana del Senato (il cui advice and consent è necessario per approvare la nomina).

È vero, mai nella storia un presidente così prossimo a lasciare la Casa Bianca ha indicato un nuovo Justice della Corte Suprema (il cui mandato è a vita), potenzialmente finendo per alterare in maniera decisiva l’equilibrio del supremo consesso giurisdizionale. Avendo, tuttavia, la possibilità di segnare dopo più d’un cinquantennio la svolta liberal della Corte, aggregando un quinto giudice progressista ai quattro già seduti fra i suoi banchi, Obama ha agito tatticamente e non ha giocato la rischiosa mossa, mentre il leader del GOP al Senato Mitch McConnell insisteva per lasciare la questione appesa (e la parità di voti in Corte), sul tavolo del prossimo inquilino della Casa Bianca. Il presidente s’è richiamato ai suoi doveri costituzionali e ha lanciato nell’arena il nome meno divisivo possibile (come giudice d’appello del District of Columbia, Garland era stato già confermato dal Senato con un voto bipartisan), scontentando anche l’ala più a sinistra del partito democratico, oggi ringalluzzita dalla retorica turboprogressista di Bernie Sanders ma puntellata da Elizabeth Warren, l’influente senatrice che ha pestato i piedi a Wall Street e che non ha mostrato entusiasmo per il nome tirato fuori dal cilindro del presidente, pur richiamando al dovere i colleghi conservatori a non negare – come ancora insistono – l’audizione al giudice Garland. Nei momenti di stallo è sempre l’ora delle seconde file, ricordano in Italia le contese democristiane per il Quirinale.

Per i repubblicani, la partita non è facile (e non è nemmeno la più ingarbugliata, considerando la scalata al partito di Trump): rifiutare di prendere in considerazione il nome di Garland non è una buona pubblicità agli occhi dell’elettorato moderato che, disperato, cerca di non perdere nonostante l’avanzata del tycoon. D’altra parte, riuscito il boicottaggio, un avvento di Hillary a Washington, e una risurrezione democratica al Senato, il prossimo novembre, potrebbero tradursi in una nomina ben più liberal da digerire.

Ma un’America che si infiamma per Trump e si lascia trascinare dagli scapigliati toni di Sanders è davvero ancora radicata al centro? Le elezioni a stelle e strisce (e non solo) si vincono ancora lì, nell’indistinta palude moderata in cui tutti i candidati presidenziali si affannano a pescare?


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