“Una spesa pubblica fatta bene, e per evitare una condanna a vent’anni, si può fare”. Stavolta, però, le patrie galere e la legislazione anticorruzione a tamburo battente – anche se si tratta di denaro pubblico – c’entrano poco. “La condanna a vent’anni” di cui parla Giorgio La Malfa è la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Fondo monetario internazionale sullo stato di salute dell’economia italiana, secondo cui il nostro Paese, al ritmo di crescita previsto dal governo, tornerebbe ai livelli di produttività pre-crisi del 2007 “solo a metà degli anni Venti”. In mezzo, due decenni andati in fumo.
L’ex ministro tira in ballo la profezia dalle tinte fosche degli osservatori dell’Fmi nell’introdurre giovedì scorso al pubblico romano – nella sala della Fondazione Ugo La Malfa, a due passi da Torre Argentina – il volume di fresca pubblicazione degli economisti Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa: dalle opere pubbliche alla spending review”, primo libro edito dal centro studi “ImpresaLavoro” in cartaceo e in formato ebook.
Una guida operativa dal sapore liberale e pro-mercato che ha come destinatari privilegiati coloro che gestiscono la spesa pubblica dello Stato ma – e forse soprattutto – delle Regioni e degli enti decentrati, perché, come insiste Pennisi – una vita fra Banca mondiale, ministeri e docenze italiane – è indispensabile ricorrere a metodi e tecniche per valutare investimenti e opere pubbliche, senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Ma non solo. Perché il testo “non è un libro di teoria economica ma una guida” rivolta a un pubblico anche di non addetti ai lavori, scritta con linguaggio accessibile e non tecnico su come valutare correttamente e tagliare efficacemente la spesa pubblica, riconvertendola a virtù ad essa oggi estranee, indicando – continua Pennisi – “i metodi migliori per scremare lì dove si annidano sprechi e costi della politica”.
“Per quale motivo non si riesce a ridurre la spesa pubblica e tutti i commissari del governo dediti alla spending review falliscono?”. Una dopo l’altra son rotolate le teste di Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli. “I fautori della spending review altrove nel mondo operano all’interno dell’autorità statale: dovrebbe cioè essere un impiego della Ragioneria dello Stato, non di un commissario ad hoc”, annota Pennisi.
Stefano Maiolo, coautore del testo e componente del nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio, rileva che l’allergia alle pagelle è ben radicata nel corredo genetico del Belpaese: “Il timore della valutazione è diffuso sin dalla tenera età, come dimostra la vicenda del boicottaggio dei test Invalsi promossi dall’Ocse fra i banchi di scuola”.
Ma per tornare alle colpe “dei grandi” – quegli stessi “grandi” che scansano i compromessi intergenerazionali e privilegiano gli interessi correnti -, Salvatore Zecchini, docente a Tor Vergata e alla testa del gruppo di lavoro Ocse sulle Pmi, punta il dito contro “i ministri che non vogliono valutare, perché temono che con la valutazione si giunga a un giudizio nel merito delle loro scelte di spesa”.
Una vecchia illusione, quella di comprimere la spesa pubblica, benché vi sia almeno un 20% di margine di manovra – secondo l’ottimistica visione di Giarda, il primo incaricato dell’ufficio chirurgico -, insiste La Malfa: “Può mai un governo alienarsi corpose categorie sociali che vanno alle urne?”. I repubblicani, in fondo, non erano un partito di massa e “qualche scelta coraggiosa potevano pure prenderla”…
“Tagli alla spesa pubblica, meno imposte e reimpiego in investimenti”, è la risposta tranchant di Zecchini a chi invoca la cura Giavazzi di abolizione degli incentivi alle imprese. E, insieme, porre le basi per una cultura della valutazione, “che prenda le mosse dai dati e dalla formazione di chi è addetto a gestire le politiche pubbliche: occorre colmare i vuoti di conoscenza quanto ai metodi, ma anche pretendere che i beneficiari di investimenti forniscano le informazioni indispensabili per valutare il finanziamento”. E certo, queste linee guida, per molte Regioni e enti locali, imporrebbero come prerequisito anche solo una semplice programmazione.
Ma il faro perpetuo a cui guardano gli autori de “La buona spesa” è l’intramontabile Ronald Reagan: fu lui a volere negli Stati Uniti una delle poche leggi mai più cambiate nell’ordinamento a stelle e strisce, sottolinea Pennisi, e cioè quella che obbliga “tutti i settori del governo e le agenzie pubbliche a corredare i propri interventi di spesa con analisi costi/benefici”, sino a giungere alla valutazione degli impatti, all’analisi del rischio e alla valutazione come condizione essenziale per ogni decisione ponderata.
“Revisione della spesa pubblica, del resto, vuol dire puntare a una spesa di qualità: non tagli indiscriminati ma cosa fare, come e perché”.