Nella commedia degli equivoci messa in scena tra Bruxelles e i paesi dell’Unione, siamo alle battute finali, quelle in cui la verità viene a galla e chi s’è comportato con la furbizia di un Bertoldo paga pegno. Parliamo di commedia degli equivoci, riferendoci agli ultimi due anni di decisioni europee in materia di immigrazione che, alla fine, hanno portato, col consenso italiano, alla situazione attuale. Al di là delle parole felpate, quelle che hanno condotto tutti sulla strada degli equivoci, a servizio di una contingente propaganda, la sostanza è una sola. L’Italia (e la Grecia) hanno subìto imponenti afflussi di immigrati illegali. Una percentuale di essi (modesta sino all’anno scorso, in aumento più di recente, anche per effetto delle dichiarazioni di Berlino e di Bruxelles a favore dei profughi siriani e iraqeni) era composta da persone che potevano ottenere il titolo di rifugiato. Da noi (accantoniamo la Grecia) si è usato per anni ricoverare la povera gente sbarcata sul nostro territorio nei centri di accoglienza, veri e propri parcheggi della disperazione. L’utile immediato dell’operazione si è riversato sui militari impegnati in mare, cui lo Stato ha riconosciuto un compenso extra pari a una percentuale dell’indennità di partecipazione ad attività belliche, e sulle varie organizzazioni umanitarie, molte delle quali hanno speculato brutalmente sui finanziamenti statali, spendendo una parte modesta di quanto ricevevano per soccorrere e mantenere i nuovi arrivati.
Non sono in condizione di affermarlo con certezza, ma mi è stato riferito che i soggetti impegnati nel soccorso non hanno obbligo di rendicontazione. Cioè non debbono tenere una contabilità, corroborata da ricevute di spesa, della loro attività di “gestione” del soccorso medesimo. Sarebbe interessante sapere (e il Parlamento è la sede giusta perché si sappia) quanto ha speso l’Italia per ogni immigrato illegale, sommando i costi delle operazioni Mare Nostrum e Triton, del soldo quotidiano distribuito (non sempre) agli immigrati, dei finanziamenti destinati a tutte le organizzazioni impegnate nell’accoglienza. Probabilmente, andiamo molto al di là della pensione minima di un italiano, della retribuzione di un co.co.co. e di un operaio appena assunto. Si tratta di una chiarezza necessaria per rendere gli italiani consapevoli del gioco che il loro Paese sta giocando. E siamo solo all’inizio del discorso.
Cosa è accaduto a coloro che erano stati sistemati nei centri di accoglienza? Alla maggioranza ben poco: né screening sanitario, né riconoscimento effettivo o convenzionale. Per due ragioni: la prima era che non eravamo in grado di mettere in piedi l’organizzazione delle dimensioni necessarie per affrontare i due adempimenti; la seconda è che i disgraziati dei centri di accoglienza erano liberi di sciamare per le loro destinazioni elettive, cioè il Nord-Europa e principalmente la Germania. Anche la Francia era una meta più interessante dell’Italia. E tutto ciò in violazione incontestabile del Trattato di Dublino che impone allo Stato in cui l’illegale arriva di identificarlo, in modo che, quando lo stesso viene fermato in altri paesi dell’Unione, lo si possa mandare nella nazione di sbarco. Una furbata all’italiana.
Le dimensioni degli arrivi, le difficoltà di inserimento (vedi le aggressioni durante il Carnevale di Colonia), il terrorismo (Parigi e Bruxelles) hanno spaventato l’opinione pubblica nei paesi investiti dal fenomeno, costringendoli a misure di autotutela. È bello ed elettoralmente utile accusare l’Austria che chiude il Brennero. Ma gli italiani non rifletteranno sui numeri di illegali transitati proprio da questo valico? E poi c’è un altro punto sul quale l’Italia ha erroneamente prestato acquiescenza: gli “Hot spot”. Nella visione di Bruxelles sono luoghi dai quali gli immigrati non si possono allontanare. In essi si procede allo screening sanitario e all’identificazione di tutti, coloro che aspirano allo status di rifugiati, una volta ottenutolo saranno inviati nei paesi che hanno manifestato disponibilità all’accoglienza (e qui c’è un altro equivoco: la maggioranza dei rifugiati non intende accettare una destinazione decisa a Bruxelles, ma intendono recarsi in nazioni precise Germania, Svezia, Norvegia, Olanda) e tutti gli altri saranno spediti (cioè deportati) in Turchia e da qui espulsi fuori dai confini.
Se vogliamo chiamare le cose col loro nome, gli “Hot spot” sono dei campi di concentramento da cui si esce solo per deportazione: in Paesi dell’Unione i rifugiati, in Turchia gli altri. I rappresentanti dell’Italia a Bruxelles hanno accettato l’operazione senza battere ciglio, probabilmente con la riserva mentale di Bertoldo. Per quanto ci riguarda, infatti, l’operazione è legalmente impossibile. Nessuno, nemmeno lo Stato, può detenere (a maggior ragione non può deportare) un essere umano se questo non ha violato il codice penale e un giudice non ne abbia deciso l’arresto (provvisorio) per un reato per il quale è prevista questa misura cautelare. Secondo l’accordo comunitario gli “Hot spot” italiani non debbono essere la medesima cosa dei centri di accoglienza del passato, da cui si usciva quando si voleva, ma non possono (legalmente) essere nemmeno ciò che pretende Bruxelles. Fine della discussione. Perciò Francia, Germania, Austria, Belgio, Svezia e Danimarca chiedono la sospensione di Schengen per altri sei mesi.
È questa la fine dell’Europa? Certo il mancato avanzamento dell’integrazione non poteva non comportare una crisi sistemica dell’Unione, aggravata dai malumori prossimi a esplodere sui debiti sovrani. Per uscire dallo stallo ci sono due passi obbligati da compiere: dire la completa verità agli italiani e aprire con fermezza una crisi con le autorità comunitarie, per ottenere una politica comune nei confronti dell’immigrazione illegale, con attività preventive in territorio africano e gestione del transito di coloro che sono ammissibili nel territorio europeo. Purtroppo non c’è altra via d’uscita.
Intanto, e prima che l’autorità giudiziaria sia costretta a intervenire sulle malversazioni di settore, è bene che il ministro Alfano imponga a tutti i soggetti che si occupano di assistenza l’obbligo di rendicontazione.
(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)