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Ecco come prof. cattolici criticano le unioni civili

L’estensione che la proposta di legge opera del regime previsto per i coniugi verso le c.d. sulle unioni civili, e del regime previsto per la famiglia verso forme di convivenza tra persone dello stesso sesso è priva di ragionevole giustificazione: si tratta di forme di convivenza che, non essendo basate sul dimorfismo sessuale, si differenziano nella sostanza dalla famiglia e non ne condividono quella funzione sociale che ne giustifica il regime speciale di cui gode nell’ordinamento.

La disciplina prevista dalla proposta di legge nell’assimilare al regime della famiglia quello di una formazione sociale diversa, viola l’art. 3, comma 1, Cost., che impone al legislatore di trattare fattispecie eguali in modo eguale e fattispecie diverse in modo diverso. Estendere i benefici previsti per il matrimonio ad altre forme di convivenza, come stabilisce la p.d.l. in esame, svilisce il significato della preferenza costituzionale per la famiglia, in contrasto con i già menzionati art. 29 e 30 Cost. Si pensi, ad esempio, alle ingenti somme necessarie per equiparare i contraenti dell’unione civile ai coniugi quanto al godimento della pensione di reversibilità. Come si recuperano i fondi per raggiungere la concreta equiparazione? O inasprendo la leva fiscale, che incide anche sui redditi a disposizione delle famiglie; o stornando risorse che potrebbero essere, invece, utilizzate per realizzare il disegno costituzionale di promozione della famiglia, in attuazione di quanto sancito dall’art. 31 Cost., ancora ampiamente da attuare (cfr. il Messaggio al Parlamento rivolto dal Presidente della Repubblica C.A. Ciampi, in occasione del Giuramento, il 18 maggio 1999, rispetto al quale la situazione attuale non è certo mutata). Né si può eludere il problema dando un riconoscimento pubblico alle convivenze senza però equipararle, quanto al godimento dei diritti sociali, alla famiglia.

Infatti, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea riconosce che gli Stati membri sono liberi di dare o meno un riconoscimento pubblico alle convivenze; ma se il legislatore decide di conferire tale riconoscimento, la stessa Corte esige che alle convivenze siano garantiti i benefici propri della famiglia fondata sul matrimonio.
La disciplina prevista dalla p.d.l. in questione, nell’assimilare al regime della famiglia quello di una formazione sociale diversa, e cioè l’unione civile, viola dunque la regola d’oro dell’eguaglianza, che impone al legislatore di trattare fattispecie ragionevolmente eguali in modo eguale e fattispecie ragionevolmente diverse in modo diverso (art. 3 Cost.). La giurisprudenza costituzionale conferma tali conclusioni: essa – riprendendo un’intuizione di Paolo Barile e parlando di una “inscindibile endiadi” tra matrimonio e famiglia (sent. n. 237 del 1986) – ha sempre mantenuto distinto, sotto il profilo dell’art. 3 comma 1 Cost., il regime che caratterizza la famiglia da quello delle convivenze, attribuendo soltanto ai conviventi more uxorio in singole fattispecie la tutela prevista per i coniugi (cfr. sent. 404 del 1988).

(Qui il DOCUMENTO INTEGRALE del centro studi Livatino)



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