Per gestire il cambiamento ci vuole una nuova leadership in impresa: il manager deve mettere in discussione il suo Dna prima di affrontare i nuovi modi e i nuovi mondi del digitale. David Bevilacqua propone un’analisi originale e sorprendente: dal tetto del mondo ICT con l’esperienza al vertice di Cisco all’azione digitale sul territorio e attraverso modelli d’impresa innovativa.
Secondo Alexis Ringwald, cofondatore di Laern Up, il 65% degli studenti di oggi svolgerà un lavoro che non è stato ancora inventato.
Abbiamo un problema, dunque. La velocità con cui la tecnologia genera il cambiamento costringe l’impresa a riconcorrere nuovi modelli di consumo e perciò di stili di vita e sociali. Mentre l’Accademia è in affanno nel fornire gli strumenti di conoscenza e le competenze necessarie. Tempi e ritmi diversi. Dettati dai lacci e lacciuoli della burocrazia o anche semplicemente dalle risposte urbi et orbi che la cosa pubblica deve dare. Dunque il sistema è apparentemente in stallo e l’apprendimento innovativo e/o informale si propone come la migliore e più rapida reazione possibile.
La cultura d’impresa vive una stagione esaltante che (temporaneamente?) corre parallela e in alcuni casi addirittura si sostituisce ai processi di formazione delle nuove leadership. Su due binari.
Uno: il manager deve cambiare, e quindi, innanzitutto, mettersi in discussione. Due: deve gestire il cambiamento ed elaborare nuovi percorsi, acquisendo in fretta e furia queste competenze.
Sembrano elidersi tra loro e una domanda sorge spontanea… quis custodiet custodes? Calza a pennello rispetto al momento, anche se si rappresenta più come una galassia entropica che una perla di saggezza classica.
Ma cominciamo a sciogliere il nodo uno. I manager devono mettersi in discussione più che arroccarsi: “C’è un vizio di partenza. Le persone puntano a fare i manager per i motivi sbagliati e con le caratteristiche sbagliate: la motivazione – e in taluni casi l’ossessione di diventare manager – è alimentata non dalla vocazione alla gestione delle risorse ma da princìpi sbagliati: denaro, potere, riconoscimento sociale. La crescita manageriale e gerarchica viene vissuta come la migliore risposta (e più rapida) a queste necessità perchè il sistema si basa sulla retribuzione delle responsabilità e non delle competenze. La scelta del Manager spesso si indirizza verso individual contributor molto capaci a svolgere una determinata attività: il miglior tecnico diventa il capo dei tecnici, il miglior venditore il capo del venditore etc etc. Un sistema che negli anni ha dimostrato le sue debolezze…se sei il migliore a fare qualcosa tenderai a continuare a farla in prima persona e a interferire nel lavoro dei collaboratori concedendo poco spazio agli errori e quindi all’esperienza e alla crescita. Se guidi perché sei il migliore a fare qualcosa tenderai a non distribuire “i segreti del tuo mestiere” per evitare che altri prendano il tuo posto”.
Ed ecco la metafora illuminante citata da Bevilacqua: “Hans Swaroswky professore alla scuola di musica di Vienna, tra i suoi studenti, tra gli altri, si annoverano Claudio Abbado e Subin Mehta sosteneva che “Il 70 per cento dei conduttori abbassa il livello dell’orchestra , il 20 % lo mantiene inalterato e solo il 10 per cento riesce ad esaltarlo”.
Dunque scardiniamo questo sistema arcaico e muoviamo sul punto 2: il cambiamento dell’azienda, del business, della visione. Che si affronta fornendo le competenze. Chiamiamolo problema di formazione perché molto spesso non c’è il tempo di acquisirle come si deve e occorre evolversi rapidamente. La questione dunque è: quale apprendimento – quali formule di apprendimento – per formare una nuova leadership di manager (se vogliamo ancora chiamarli così) in grado di gestire e indirizzare il cambiamento?
Problema di qualità non di quantità che interseca i punti uno e due e svela il male oscuro (forse anche – o in qualche modo – molto italiano, da piccola e media?): “Esiste una questione generazionale nei processi di digitalizzazione in cui, molto spesso, i giovani talenti, che sono in grado di guardare il business con nuove lenti, sono parcheggiati alla base della piramide gerarchica, con poche possibilità di avere le proprie idee ascoltate e valorizzate. Non si tratta di elaborare una strategia IT che coincida con la strategia aziendale. Ma soprattutto di rimodellare tutti i vantaggi di ciò che la tecnologia rende possibile; creare una cultura di innovazione continua; re-immaginare il modo di fare business oggi. Quindi riscrivere il copione su come facciamo il nostro business e con chi cercando di disconnetterci dal passato. “Abbiamo sempre fatto cosi’” potrebbe essere la trappola letale. Il legame con il passato è probabile che si traduca nell’essere il vero freno al processo di digitalizzazione. Molte aziende leader continuano a collegare la loro campagna di brand e di comunicazione facendo riferimento ad un glorioso passato. Forse cercano di difendersi dai nuovi attori del mondo digitale che si affacciano al mercato investendo sul futuro e diventando market leader in un tempo molto breve. Non sono sicuro che la strategia giusta sia difendersi piuttosto che attaccare”.
Chi scommetterebbe sulla difesa?
Forse ancora in tanti, troppi.
Ecco perché il cambiamento, quello profondo che sposta le angolature di visuale e proietta nei nuovi mondi (e mercati), fa fatica ad affermarsi. C’è la resistenza del middle management che si sente privato dei privilegi e minacciato nella sopravvivenza, che si arrampica sugli specchi. Fatica sprecata, la direzione è inevitabile. Ma il rallentamento è un prezzo sempre più alto da pagare.