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Ecco come Google seduce gli editori e strattona Facebook e Twitter

Google ha ufficialmente lanciato il nuovo prodotto Google Posts, parte della strategia di Big G per conquistare il business dell’informazione e sottrarre fette di mercato ai rivali più temibili: i social network. Posts permette (per ora a personaggi, brand o gruppi dei media selezionati) di pubblicare contenuti direttamente nei risultati delle ricerche di Google relativi a quel soggetto. I post saranno visibili per una settimana (poi resterà il link); potranno contenere testo (con un massimo di 14.400 caratteri), video e foto (fino a dieci) e link esterni, ed essere condivisi sui social. Gli interessati devono iscriversi in una lista d’attesa.

“Ogni giorno milioni di persone effettuano ricerche su Google e molti cercano informazioni su persone e organizzazioni di primo piano. Ora stiamo sperimentando un nuovo modo per gli utenti di ricevere queste notizie direttamente da entità selezionate”, scrive Google.

Google aveva anticipato informalmente Posts a inizio anno e lo ha messo a disposizione di pochi utenti, tra cui Fox News (in occasione di una tribuna politica tra candidati presidenziali a gennaio) e, più di recente, Hbo e Jimmy Kimmel. “Continuiamo a studiare possibili casi d’uso”, ha chiarito Big G.

LO SGAMBETTO A TWITTER

“È da inizio anno che Google lavora su questa funzione per permettere a individui o organizzazioni di pubblicare piccoli testi direttamente e istantaneamente nelle ricerche di Google, includendo immagini, video e un link. Vi ricorda niente?”, commenta Re/Code. “Dovrebbe: si chiama Twitter. Quel che è peggio è che, in alcuni casi, nei Google Posts potrebbero finire gli stessi contenuti che oggi vengono messi su Twitter”.

In realtà, Twitter e Google hanno già un accordo con cui alcuni tweet possono comparire nei risultati delle ricerche di Google, ma con Posts ovviamente si può inserire di tutto, non solo i tweet o ciò che si metterebbe su Twitter. E’ un modo, secondo Re/Code, di rinnovare il “look and feel” della funzione di ricerca di Google, soprattutto pensando ai device mobili, dove Google ha bisogno di attrarre attenzione e click. Quindi ora, ovviamente, i contenuti originali dei Google Posts saranno prioritari rispetto a quelli presi in prestito da Twitter.

“Crediamo che questa nuova feature dia a persone e brand un altro canale per condividere contenuti autorevoli e multimediali con gli utenti che li cercano su Google, ma non sono necessariamente loro follower su Twitter”, ha spiegato un portavoce di Google. “I risultati di Twitter continueranno ad apparire nei risultati di ricerca”.

Gli esperti pensano comunque che Twitter non debba preoccuparsi troppo: persone vicine a Mountain View dicono che, se una persona o un brand è davvero molto “trendy”, i contenuti di Twitter appariranno sempre per primi nei risultati di ricerca di Google.

LA STRATEGIA ANTI-FACEBOOK

È possibile invece che Google Posts sia studiato per rafforzare la strategia anti-Facebook di Google che ha già trovato la sua massima espressione nel prodotto Accelerated Mobile Pages, o AMP, disegnato per pubblicare in modo veloce articoli su mobile. Far caricare gli articoli molto velocemente agevola gli editori e aiuta Google che guadagna dal web advertising e deve proteggersi dalla migrazione dei contenuti verso Facebook.

Google ha tenuto a sottolineare che Posts è diverso da AMP, perché qui i contenuti sono ospitati dagli editori, mentre con Posts è Google che ospita i contenuti. Posts inoltre è gratuito, almeno per ora, e non aperto agli inserzionisti perché Google non vuole rischiare di alienare gli utenti della ricerca inondandoli di risultati che in realtà contengono pubblicità. L’obiettivo primario è invece diventare il primo canale sui device mobili dove l’utente cerca notizie. Si tratta di spingere l’utente a usare il web browser e le parole chiave per cercare contenuti e news, anziché andare su Facebook, come sempre più spesso accade.

“Il progetto AMP è la risposta di Google a Instant Articles di Facebook, la feature di mobile publishing del social network: entrambi offrono un modo di accelerare il caricamento delle pagine web su mobile, ma con la grande differenza che AMP è open source mentre Instant Articles è sotto lo stretto controllo di Facebook”, ha scritto Fortune. Quindi chi usa il prodotto di Google ha più libertà di modificarlo e adattarlo e può metterci qualunque contenuto, mentre Facebook controlla ciò che viene pubblicato su Instant Articles. In teoria, le AMP di Google servono a potenziare il rapporto tra utente e editore (o chiunque pubblichi), mentre gli Instant Articles di Facebook potenziano innanzitutto il legame degli utenti con Facebook.

SOLO GOOGLE, NIENTE INTERMEDIARI

Naturalmente non tutti i commentatori la vedono così. Per Salon.com Google difende solo il suo interesse tenendo gli utenti del web dentro il suo “recinto”: “Google vuole eliminare gli intermediari – ovvero, gli altri siti Internet – e servirci i contenuti nel suo bel walled garden. Vedo già gli editori correre dallo psicanalista”. E ancora: “In principio era la ricerca, non i social media, a dominare Internet e Google era il centro del sistema solare internettiano. Tutte le aziende si sforzavano di trovare un modo per capire l’algoritmo di Google e figurare tra i primi risultati della search. Chi non c’era era finito”. Poi è arrivato Facebook, ha preso il posto di Google, e ora le aziende “non dormono la notte” per capire come essere presenti sul social network e il suo algoritmo, scrive Salon.com, è segreto e misterioso almeno quanto quello di Big G.

SU MOBILE, VELOCEMENTE

Non è detto però, almeno nell’immediato, che il sistema internettiano non possa consentire la convivenza di “due soli”: i grandi editori e brand, infatti, cercano di essere presenti sia su Google che su Facebook.

Su Fortune Julia Beizer, director of product del Washington Post, ha detto che il suo giornale usa sia AMP che Instant Articles, dove pubblica il 100% delle sue news. Certo, AMP sembra necessario anche perché questi articoli potrebbero risultare più in alto nelle ricerche su Google, ma la Beizer ha spiegato che il Washington Post non usa il prodotto di Google perché si sente “sotto pressione” ma per cogliere tutte le “opportunità” esistenti e la riduzione dei tempi di caricamento su mobile delle notizie è il vantaggio più importante.

Lo ha confermato Melissa Bell, head of growth di Vox Media: il gruppo ha adottato AMP non appena Google lo ha lanciato, dopo aver cercato invano per anni di capire come ridurre i tempi di caricamento dei suoi articoli su mobile. “Quello che conta non è tanto comparire in alto nelle ricerche quanto dare all’utente la miglior esperienza possibile”.



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