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Il disincanto che domina i luoghi della post-democrazia | Appunti su ‘Il tempo del disincanto’

Appunti su Il tempo del disincanto di Massimo Ilardi

Disincanti e ideologie

Il disincanto, per Ilardi, può essere definito così: «Il disincanto è dentro e contro il presente. Appare quando il consumo, spinto dal desiderio, fuoriesce dall’economico, non rispetta più la regola dell’equivalenza generale che è centrale in un sistema di mercato e investe tutti gli aspetti e comportamenti della vita oltrepassando la semplice relazione con l’oggetto e coinvolgendo nella sua opera di distruzione/creazione ogni affetto, passione o relazione di cui è capace l’individuo. E’ solo a questo punto che si crea metropoli come antitesi irrisolvibile tra regole del mercato e desiderio individuale, tra mercato e sua società trasformata dal primato del consumo. La metropoli diventa ingovernabile e il consumo l’estrema significanza di un mondo senza futuro e aspettative salvifiche».

‘Il tempo del disincanto’ è il nuovo saggio di Massimo Ilardi e che ha come sottotitolo la significativa dicitura «Per dimenticare il passato, rimuovere il futuro, vivere il presente». Ilardi pone una serie di tematiche nelle pagine che animano il suo scritto e le sue molteplici analisi, tutte dominate dal filo conduttore del disincanto che, assieme al concetto di metropoli (oltre che luogo, in ogni accezione del termine), rappresenta la chiave per vivere il presente, per dirla come la scriverebbe l’autore, o come cita da Dostoevskij riprendendo le parole di Ivan Karamazov «amare la vita più del senso della vita».
Rimuovere il passato, tuttavia, è un passaggio – pur centrale – che Ilardi chiarisce poco, o meglio: l’autore fa sì che venga sviluppato in parte fin dall’introduzione quando afferma: «Questo non è uno scritto contro il Novecento e le sue categorie, ma contro chi si ostina a riproporle come chiavi esclusive di lettura del presente e per di più slegandole dal loro contesto storico e sociale […] E così il lavoro, la produzione, la politica, la rivoluzione, lo Stato, il partito, le classi, il popolo diventano categorie che non sorgono e decadono con il tempo ma, come lo spirito della storia, sono presenze eternamente perduranti che racchiudono passato e avvenire. Spetta loro criticare duramente questo presente anarchico, volgare, distruttivo, e tentare di redimerlo. Ma la conseguenza è che, se usate in maniera così incondizionata, non riusciranno mai a leggerlo né a cambiarlo ma solo a denigrarlo, rifiutando le sue sfide. D’altra parte sono anche convinto che senza queste categorie non si fa ricerca sociale e nella riflessione, quando necessario, il presente è il nemico da sconfiggere». La questione è annosa e non basterebbero centinaia delle metaforiche cartelle word per riuscire a spiegare o dibattere sul tema: la questione dell’ideologia da abbandonare per leggere il presente è la chiave di volta per entrare nel terreno post-democratico. L’ideologia, infatti, è il solo appiglio che possiede oggigiorno l’uomo per poter riuscire a sopportare quale che sono le malignità della metropoli, descritte ed analizzate da Ilardi: se viene criticato Marx dal punto di vista sociologico, è bene, però, riprendere quelle categorie marxiste per leggere il presente ed interpretarlo a seconda della realtà che si presenta davanti agli occhi di chi osserva, specula e analizza. Il disincanto è, dunque, l’unica categoria per osservare esternamente il presente, cercando di interpretarlo il più acriticamente possibile, per Ilardi. La questione ideologica, però, torna nel disincanto quando l’autore analizza le realtà politiche che si sono susseguite in Italia negli ultimi anni (cap. Il re-incanto del mondo) ammettendo un’ideologia, quella della Volontà Generale, citando ad hoc Enrico Letta e le sue parole al momento del giuramento dei sottosegretari del suo governo: «”Da oggi siamo al servizio dell’interesse del Paese senza spirito di pare, perché facciamo parte di un governo con una larga maggioranza parlamentare […]”. Detto in altre parole: dato che siamo la maggioranza parlamentare, teoricamente rappresentiamo l’interesse generale (Paese) che non può contrapporsi al particulare». Questo è il passaggio meno chiaro dell’opera di Ilardi: la Volontà Generale, tirata in ballo per giustificare un Governo cosiddetto di larghe intese, viene intesa come ideologia messa al servizio del Paese. Tuttavia, nell’era del disincanto stride che l’ideologia, da abbandonare come categoria novecentesca, riemerga come un fiume carsico sotto il nome di Volontà Generale (a proposito, poi, del governo Letta). Ultima nota sui partiti e sulle organizzazioni politiche, scrive Ilardi: «Non a caso viviamo l’epoca dell’antipolitica proprio perché «il partito d’opinione, il partito elettorale, il partito personale, sono partiti senza partito. Cioè partiti senza organizzazione permanente, stabile o quotidiana» e che «rappresentano anche troppo, perché rappresentano passivamente, rispecchiano, non interpretano, ascoltano e non parlano». Il loro obiettivo è quello di prendere l’opinione e ripeterla e, conio ripeterla, amplificarla, inseguendo l’opinione dei più». Tale processo s’è portato allo stremo proprio con la de-ideologizzazione della politica, andando ad affermare un concetto, ripetendolo ed amplificandolo, errato per l’analisi del presente, ovvero, quello della fine delle ideologie. Non a caso dal punto di vista antropologico culturale l’ideologia della fine delle ideologie (o post-ideologismo) è la peggiore delle ideologie: tale deriva ha fatto sì che si presentasse il partito non elettorale, personale, d’opinione, bensì peggio ancora, il partito come comitato elettorale permanente.

Metropoli e periferie

Quello della metropoli è il luogo del disincanto: nelle prime battute del saggio (cap. Sulla Metropolitana), infatti, Ilardi somma comportamenti scorretti che la modernità ha fatto assumere agli abitanti della città che ha fagocitato quel che aveva intorno. «Vi accorgerete che pochi sono i giornali, ancora meno i libri che hanno davanti. Almeno due terzi di loro sono invece con uno smartphone in mano e digitano freneticamente. Non vedono, non parlano, non sentano. Sembra che gli altri non esistano. In prossimità di una fermata alcuni si alzano e si dirigono alla portata non tolgono gli occhi dalla tastiera, non si guardano intorno, non controllano che la fermata giusta sia quella». In poche parole, sono individui alienati dalla modernità. Tale passaggio è ravvisabile anche quando l’autore tratta del tema della periferia come zona di frontiera, citando Piero Zanini: «La frontiera è fronte a,  è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno. Su di essa lo scontro appare come una conseguenza inevitabile, […] Il fronte è quindi il luogo dove forze opposte si confrontano, spesso si scontrano, altre volte si incontrano, comunque entrano in crisi». Chi batte queste righe vive la periferie quotidianamente, una delle più disagiate di Roma (quella del quadrante Est e del VI municipio della Capitale) che i giornalisti poco avvezzi ad essa nominano semplicemente estendendo il nome della consolare su cui si sviluppano i quartieri, popolosi come Città: il casilino nel caso si dovesse riportare dei fatti di cronaca avvenuto a Torre Angela o Tor Bella Monaca o il prenestino nel caso dovesse accadere qualcosa a Ponte di Nona. Un confuso definire un mondo come parte per il tutto, nonostante sia impossibile assumere quella parte per quel tutto. In buona sostanza le periferie assumono, introiettando al proprio interno e nei propri abitanti, quel disincanto e quell’autocommiserazione che l’autore va descrivendo analizzando le metropoli in generale.

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