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Il termometro dei rapporti Italia-Stati Uniti

Era il 17 Dicembre del 2013 quando, appena nove giorni dopo il suo trionfo alle primarie del Partito Democratico, Matteo Renzi dichiarava pubblicamente il su no alla “web tax”, con ciò conquistandosi definitivamente le simpatie dell’establishment statunitense, che tanto si stava preoccupando per la proposta del Governo Letta di tassare le multinazionali americane operanti su Internet.

Era questo un inequivocabile messaggio di amicizia verso gli Stati Uniti subito raccolto ed anzi rilanciato perché, del resto, il segretario del PD era (è?) la ricetta giusta secondo gli americani: giovane, moderno e innovativo per un paese vecchio, antico e gattopardesco come l’Italia. Insomma, quello che ci voleva per una Nazione che necessitava di riforme perché gli americani questo ci chiedevano e ci chiedono: riforme, riforme ed ancora riforme.

Inoltre, era (è?) molto vicino alle posizioni del “Democratic Party”, sebbene non si sia mai sentito parlare uno di “sinistra” così male dei sindacati (“io non tratto con i sindacati”). Il tutto era anche condito da una vecchia amicizia con l’Ambasciatore John Phillips da poco nominato come nuovo reggente della sede di Via Veneto a Roma ma che da tempo conosceva il sindaco di Firenze e presidente della provincia toscana per motivi personali legati alle sue origini italiane ed alla sua splendida residenza a Borgo Finocchieto nelle colline senesi.

Insomma, Matteo Renzi era (è?) l’uomo ideale per rilanciare il nostro Paese, realizzare finalmente le tanto attese riforme e, perché no?, anche e soprattutto aumentare il livello di interscambio commerciale tra Italia ed USA: in definitiva, il partner perfetto dal punto di vista politico, istituzionale, economico e strategico.

Dunque l’endorsement del mondo americano fu quasi naturale ed ovvio tant’è che appena due mesi dopo, vale a dire subito dopo che Letta aveva ascoltato l’ormai celebre “Enrico stai sereno”, l’ex Sindaco di Firenze potè formare il suo governo con il beneplacito ed anzi con il supporto abbastanza esplicito delle rappresentanze statunitensi in Italia.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e l’idillio tra l’attuale governo italiano ed il mondo degli Stati Uniti sembra essersi appannato. Attenzione, subito una precisazione: non è assolutamente messo in discussione l’uomo ed il politico Renzi che anzi ora più di prima viene considerato di altissimo livello. Tuttavia, il suo governo sembra avere perso quella spinta propulsiva iniziale e con enorme rammarico sono stati notati diversi incidenti di percorso (gravi e meno gravi).

Ad esempio non è per niente piaciuto il dovere fare polemica e puntualizzare con il principale quotidiano italiano relativamente alle presunte indicazioni che gli USA avrebbero dato all’Italia sugli uomini da inviare in Libia. Per non dire dell’imbarazzo istituzionale che avrebbe riguardato il nostro Presidente del Consiglio all’incontro con Barack Obama: i bene informati raccontano infatti che il primo abbia preteso di incontrare il secondo senza l’ausilio di alcun interprete volendo dimostrare di essere in grado di reggere una conversazione con la conseguenza, però, di travisare parecchi dei punti fondamentali della loro chiacchierata…

Ad ogni modo, certamente l’establishment statunitense non ha gradito le recenti intercettazioni che hanno dimostrato come questo Governo non sia del tutto integro ed in proposito non sono bastate le (pur apprezzate) immediate dimissioni del Ministro Guidi, specie perché lo scandalo ha riguardato un Ministero chiave (quello dello Sviluppo Economico). L’esecutivo Renzi ha insomma dimostrato di non essere completamente al di sopra di ogni sospetto e soprattutto ha realizzato in minima parte le riforme invocate. Per carità, le riforme sono state fatte ma non nella portata e nel numero che era stato promesso ed era auspicabile ed è in particolare stato notato che nei due anni di lavoro non si è messo compiutamente mano alla ristrutturazione della Pubblica Amministrazione.

Del resto un uomo solo al comando non può funzionare. Si dice che il nostro attuale Presidente del Consiglio non può fare tutto da solo o comunque non può pretendere di supervisionare su ogni cosa. Nemmeno sono piaciute le ultime uscite pubbliche del premier sul non votare al referendum anti trivelle perché la consultazione popolare è sempre e comunque sacra ed intoccabile nella visione statunitense. Così come ha stancato il sentire sempre che “è colpa delle lobbies se questo Paese non progredisce” considerato che sarebbe più facile regolarle le lobbies (negli Stati Uniti il fenomeno è regolato da più di un secolo!). Senza considerare che la “web tax” di cui si diceva all’inizio è stata ripresa dal cassetto e riproposta in parlamento.

Quale è il risultato di tutto quanto sopra? Che il vento è cambiato e le rappresentanze diplomatiche, commerciali, culturali e politiche statunitensi stanno prendendo le distanze (chi pubblicamente, chi privatamente in attesa di uscire allo scoperto) dall’attuale Governo nel quale non si riconoscono più e verso il quale non nutrono adesso una fiducia incondizionata. Insomma, dopo l’iniziale entusiasmo il termometro dei rapporti Italia—Usa segna oggi molto freddo e si aspetta l’8 Novembre 2016 quando con ogni probabilità si registrerà un cambio epocale per il mondo intero e per la storia con il primo Presidente donna a guidare il Paese più importante del mondo.

A Novembre nuovi equilibri si creeranno e tutto sarà rimesso in discussione ma non è detto che anche prima di allora non avvenga in Italia qualche cataclisma. Le amministrative di Giugno, il referendum di Ottobre o qualche ulteriore inaspettato (?) “scandalo” potrebbero anticipare una soluzione che sembra irreversibile. Ecco perché, per quella evenienza ed in attesa di avere finalmente nell’inverno del 2018 – dopo ben tre esecutivi non pienamente legittimati – un Governo eletto dal popolo, sta scaldando i motori e si tiene pronto una vecchia conoscenza che tanto piace proprio all’establishment statunitense: Giuliano Amato.

 

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