Donald Trump vince di nuovo, nonostante i suoi due avversari superstiti gli si siano coalizzati contro. E Ted Cruz ne tira le conseguenze e lascia la corsa. “Adesso, tutti uniti dietro a Trump” annuncia ora il partito repubblicano, che pure ha cercato in ogni modo d’ostacolare la nomination del magnate dell’immobiliare.
Fra i democratici, Bernie Sanders, che ha già ammesso di non potere più strappare la nomination a Hillary Clinton, tiene comunque testa all’ex first lady e la batte sul filo di lana, 52 a 48%, smentendo i sondaggi e confermando sia la sua forza negli Stati dove l’elettorato bianco è prevalente sia la vitalità della sua campagna. Ma Hillary fa comunque un altro passettino verso la maggioranza assoluta dei delegati, che è ormai destinata a raggiungere.
Le primarie dell’Indiana, sulla carta poco significative, innescano un terremoto repubblicano e una sorpresa democratica e mettono forse definitivamente la barra dell’Election Day l’8 novembre sul match tra lo showman senza peli sulla lingua, inesperto di politica, ma capace di suscitare consensi, e la più navigata degli uomini politici, ex first lady, ex senatrice dello Stato di News York, ex segretario di Stato, ex candidata alla nomination nel 2008.
I rivali di Trump, il senatore del Texas Ted Cruz e il governatore dell’Ohio John Kasich, s’erano coalizzati in Indiana per battere il battistrada. Ma l’operazione è fallita: Trump ottiene il 53% dei voti, Cruz si ferma al 37%, Kasich, che qui non correva, all’8%.
Il senatore decide che è il momento di riconoscere che “gli elettori hanno scelto un’altra strada” e annuncia: “Sospendo la campagna, non la lotta per la libertà, la difesa della Costituzione, i valori cristiani”. Cruz lo fa avendo accanto a sé la moglie Nancy e tutta la sua famiglia e Carly Fiorina, scelta solo pochi giorni fa come candidata ‘vice’, nel tentativo di giocare la carta femminile.
Alla vigilia del voto, c’era stato l’ennesimo scontro al calor bianco tra Trump e Cruz: lo showman aveva sostenuto che il padre del senatore, un esule cubano, era in qualche modo coinvolto nell’assassinio del presidente Kennedy, un’affermazione destituita di ogni fondamento. Adesso, Trump si congratula con Cruz per la sua campagna e la decisione “coraggiosa”. Il senatore, invece, non cita lo showman nel discorso di resa.
Kasich, invece, che dei 17 aspiranti alla nomination dell’autunno scorso pareva uno dei più fragili, vuole resistere fino all’ultimo e dice: “Punto alla convention ‘aperta’”, dove, cioè, nessuno arrivi avendo la maggioranza assoluta dei delegati necessaria a garantirsi la nomination.
Ma la prospettiva appare flebile, davanti ai successi di Trump e al mutato atteggiamento del partito. Il presidente della commissione nazionale del partito repubblicano, Reince Priebus riconosce ora in Trump il candidato “in pectore” e lancia, con un tweet, l’appello “a unire il partito e a concentrarci sullo sconfiggere Hillary Clinton”. Nelle scorse settimane, Trump e Priebus avevano spesso e vivacemente polemizzato, specie sul meccanismo di assegnazione dei delegati, che il magnate aveva addirittura definito “una truffa”.
Proprio in termini di delegati, fra i democratici 43 vanno a Sanders e 37 a Hillary, che ne ha ormai il 95% circa dei necessari; fra i repubblicani, vanno tutti a Trump, un ciclone, nonostante l’Indiana fosse sulla carta favorevole a Cruz, con l’appoggio del governatore Mike Pence, oltre che degli evangelici.
Trump è sulla cresta dell’onda come non mai e dice che “molto presto saremo nuovamente molto orgogliosi del nostro Paese”: il 56% dei potenziali elettori repubblicani sono favorevoli alla sua nomination e un sondaggio nazionale, il Rasmussen, per la prima volta lo vede avanti in una sfida con Hillary, 41% contro 39% – a marzo, Hillary era in vantaggio di 5 punti -. Il distacco è tuttavia inferiore al margine d’errore del rilevamento.