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La famiglia e le sue (cattive) imitazioni

Matteo Renzi

La nuova legge che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze, approvato lo scorso 11 maggio a Montecitorio con 372 voti a favore, 51 contrari e 99 astenuti, è stata oggetto di numerose critiche. Nel caso delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, la legge definisce tale unione una “specifica formazione sociale” differenziandola, almeno lessicalmente, dal matrimonio civile. La sua disciplina, però, risulta essere in sostanziale analogia con quest’ultimo. Nel caso di delle convivenze, invece, la legge definisce conviventi “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Le critiche mosse contro questo provvedimento si possono condividere o meno ma c’è un dato che non può essere negato perché inconfutabile: la consacrazione legislativa dello scivolamento del concetto di famiglia da formazione sociale che, per la sua forte valenza etica – legata al dono della vita e alla complementarità del rapporto uomo-donna nell’ambito di un contesto di relazioni stabili -, svolge una funzione sociale indispensabile per lo sviluppo del Paese, verso una deriva sempre più individualistica, consumistica e relativistica. A parere di chi scrive, le critiche al provvedimento possono essere mosse su tre piani: uno etico, uno metodologico e uno giuridico.
Sul piano etico dobbiamo riconoscere che, se ci limitassimo alla definizione riportata su Wikipedia, saremmo portati ad intendere la famiglia come “un nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e, di norma, sono legati tra loro col vincolo del matrimonio con convivenza o da rapporti di parentela o di affinità”. Se però così fosse, se cioè cedessimo alla tentazione di ridurla ad un mero aggregato di individui, più o meno causale, del tutto equiparabile a qualsivoglia altra formazione sociale, risulterebbe persino logico definire come familiare qualsiasi relazione, più o meno stabile, tra più individui, fondata su un’unione persino non necessariamente eterosessuale. Non c’è da stupirsi. L’indebolimento dei riferimenti morali e le moderne tendenze relativistiche che si fanno sempre più spazio nella cultura occidentale alimentano – spesso nella totale indifferenza dei cattolici, sempre più timorosi di esporsi e prendere posizione senza scivolarne nel solito stucchevole clericalismo a cui ci hanno abituato i nostri paladini (spesso neanche cattolici) del cattolicesimo politico – un equivoco e fuorviante concetto di famiglia che, inquadrandola in una dimensione sempre più individualistica, ne svuota il ruolo sociale con conseguenze profonde sul piano della disgregazione dei legami sociali e della società nel suo insieme. Su questo equivoco lessicale si giocano il destino della famiglia e, in chiave politica, come ci ha ricordato Francesco in occasione della consegna del Premio Carlo Magno, le stesse prospettive di risveglio della società europea nel segno di quell’umanesimo che è iscritto nei cuori dei popoli europei.
Il magistero sociale della Chiesa ci pone, invece, di fronte ad una semantica della famiglia che ci svela, per usare la felice espressione di Pierpaolo Donati, la sua “soggettività sociale” che è, nello stesso tempo, un carattere intrinseco della famiglia cristianamente intesa, la quale, presuppone il riconoscimento di un progetto di vita che va ben oltre il proprio, sia in termini relazionali che temporali. La famiglia, infatti, “nasce dall’amore di Dio, segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne (cfr. Gen 2, 24) e sono capaci di generare una nuova vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del suo disegno d’amore” (Lumen fidei, n. 52). La fede, perciò, “ci illumina sul senso più intimo e personale e, nel contempo, civile e pubblico della famiglia” (D.Antiseri-F.Felice, La vita alla luce della fede, Rubbettino, 2013).
Questa soggettività sociale, così intesa, è assente tanto nelle unioni civili tra persone dello stesso sesso, quanto nelle unioni civili. Per questo ragione, e non per altre, esse non possono e non devono essere confuse con la famiglia. La soggettività sociale della famiglia, del resto, si manifesta sia nel carattere pre-statuale delle relazioni matrimoniali e di filiazione, rispetto alle quali al legislatore è preclusa ogni forma di intervento; sia nella rilevanza pubblica di tali legami che, in quanto sfera di relazioni, connota la famiglia come una formazione sociale degna di essere tutelata e protetta dall’ordinamento. Del resto, è proprio grazie alla famiglia ed all’interno della sua complessa rete relazionale che si forma la persona che, a sua volta, è l’elemento fondamentale del sistema economico, politico e culturale (F. Felice).
La famiglia – basata sulla piena reciprocità dei sessi e fra le generazioni (P. Donati) – è il luogo in cui si coltivano le virtù personali e, nello stesso tempo, la formazione sociale in grado di trasformarle in virtù pubbliche e, quindi, in capitale sociale. Da essa, dunque, possono dipendere la stessa vitalità economica della società, la propensione al risparmio o ad effettuare investimenti, gli assetti proprietari del sistema imprenditoriale e le loro dimensioni delle imprese, la capacità di autogoverno, la propensione al rispetto delle regole e la presenza di sufficienti anticorpi contro la corruzione pubblica e privata, e finanche l’articolazione del sistema di welfare. L’indebolimento della famiglia naturale, la messa in discussione della sua realtà simbolica (composta da padre, madre e, per le coppie a cui tale dono è concesso, figli), così come pure il rafforzamento dei soli legami familiari in un quadro di indifferenza rispetto al bene dell’altro (famiglie-clan), possono provocare conseguenze sulle dinamiche sociali rispetto alle quali occorre estrema prudenza e consapevolezza. Per questa ragione, pur volendo tralasciare gli aspetti etici della questione, anche sotto il profilo metodologico non pare accettabile affrontare questi temi al di fuori di un dibattito cosciente sulle implicazioni sociali di simili scelte del legislatore, specie se in realtà esse celano qualche calcolo elettorale o il mantenimento di qualche posto nel Governo di qualche ‘cattolico adulto’.
Anche sotto il profilo giuridico il provvedimento si presta a diverse censure. L’influenza della Dottrina Sociale della Chiesa e la consapevolezza del legame sussistente tra le relazioni familiari e le dinamiche sociali, è ben riscontrabile nei lavori dell’assemblea costituente e nella stessa carta costituzionale, laddove ne riconosce un ruolo centrale per lo sviluppo del Paese. Nonostante tale evidenza, nel dibattito odierno persiste una grave confusione tra il piano dei diritti individuali (qual è il rivendicato “diritto di sposarsi”, riconosciuto come diritto fondamentale dell’uomo) e quello della funzione sociale della “famiglia naturale fondata sul matrimonio” di cui all’art. 29 della Costituzione che, in virtù della sua naturale propensione alla trasmissione della vita ed alla formazione delle persone, è riconosciuta come fondamentale formazione sociale, precedente rispetto allo Stato (e, quindi, al legislatore stesso), e tutelata in quanto elemento cardine per lo sviluppo della società.
Del resto, se tra questi due piani connessi ma non sovrapponibili non ci fosse una distinzione netta, lo stesso art. 29 della Costituzione, primo articolo del Titolo II dedicato ai “Rapporti Etico-Sociali”, perderebbe di significato risultandone l’oggetto di tutela perfettamente identico a quello di cui all’art. 2 della Costituzione, laddove vengono invece riconosciuti e tutelati “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
La difesa della centralità della famiglia naturale fondata sul matrimonio e della sua diversità rispetto a qualsiasi altra forma di unione stabile tra due o più soggetti si traduce, dunque, in una battaglia prima culturale e poi politica per la promozione di una certa idea di società e di un determinato modello di sviluppo. Detto ciò, non v’è dubbio che la famiglia naturale fondata sul matrimonio sia in crisi, così come pure che qualsiasi forma di discriminazione meriti di essere contrastata.
La famiglia non è però in crisi come istituzione: non v’è (ancora) un esplicito disconoscimento del suo ruolo di cellula fondamentale della società bensì una crisi di senso e di allontanamento dalla verità della relazione sponsale tra l’uomo e la donna che ha prodotto modelli familiari che non si sono dimostrati in grado di assolvere ai compiti naturalmente assegnati alla famiglia ed in cui i coniugi hanno talvolta rinunciato ad assumersi le relative responsabilità verso se stessi, verso i figli e la società nel suo insieme.
Contro tale deriva, la famiglia deve contrapporre i propri anticorpi raccogliendo la sfida di un nuovo umanesimo.  La ricoperta del senso autentico della famiglia e del suo ruolo sociale, non è infatti un tema appannaggio solo dei cattolici – una sorta di battaglia di retroguardia contro la modernità – ma della società nel suo insieme, poiché da essa discendono effetti sull’intero sistema sociale, con conseguenze sulla sfera economica, politica ed etico-culturale e, in definitiva, sullo sviluppo umano.

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