La Cassa depositi e prestiti? Una nuova Iri? La banca di sistema? Il commissario al piano come in Francia? Tutta roba del passato. La politica industriale oggi non la fa lo Stato né una sua tecnostruttura centralizzata, ma la città, o meglio l’area metropolitana. E’ così a Los Angeles come a Chicago, ma è così anche a Milano. Le parole di Giuliano Amato, oggi giudice costituzionale, l’uomo che tra le altre cose ha messo fine alle banche pubbliche e allo Stato imprenditore, scivolano dolci come il miele su un attento Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, che del “modello Milano” ha fatto il suo cavallo di battaglia.
Il dialogo si svolge a Roma, nella sala a pianterreno dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. E l’occasione è la presentazione del libro di Franco Debenedetti “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” (Marsilio editore). Attorno al tavolo per il dibattito coordinato da Oscar Giannino, oltre ad Amato e Rocca c’è Giuliano Ferrara e, naturalmente, l’autore. Ad ascoltare, in prima fila, Carlo De Benedetti e Cesare Geronzi.
Contro i critici del modo in cui sono state fatte le privatizzazioni negli anni ’90, Amato difende il proprio operato: “Non è vero che ho venduto l’IRI per fare cassa. Ma quale cassa, c’era solo una montagna di debiti. L’ho fatto perché era ora di sottrarlo alla politica”. L’ex presidente del Consiglio si distingue dalla impostazione liberista di Debenedetti, ma ammette che “lo spreco di risorse nel privato è una eventualità, nel pubblico è un destino”. E traccia una sorta di terza via alla politica industriale, tra Stato e mercato, tra governo centrale e poteri locali.
L’economia dell’innovazione, che non è solo internet, ma scienza applicata all’industria nei campi più diversi (si pensi alla medicina), oggi si tratta di mettere insieme università, ricerca, finanza, territorio, il ruolo del governo pubblico è di mettere tutti attorno a un tavolo per un un progetto unitario e precostituire le condizioni affinché si realizzi. E Rocca sottolinea che è esattamente quel che ha in mente per la Milano del dopo Expo. “La mano pubblica – insiste Amato – torna così a quel che ci aveva insegnato Carlo Cattaneo, diventa la forza trainante dello sviluppo che oggi ruota attorno alle città, alle aree metropolitane”.
Un modello senza dubbio affascinante che non dispiace nemmeno a Debenedetti o a Ferrara secondo il quale, richiamando una vecchia battuta di “un rivoluzionario russo”, mettere in contrapposizione lo sviluppo che viene dal basso o dall’alto (e in fondo anche Stato e mercato) è come dire se serve di più il braccio destro o quello sinistro. Dunque, una provocazione acuta come sempre quella di Giuliano Amato che ancora una volta merita il nomignolo di dottor sottile. Tuttavia si scontra subito, nel caso italiano, con due ostacoli non da poco, strettamente legati l’uno all’altro.
Il primo è chi governa questo processo. Oggi esistono sulla carta le aree metropolitane, esiste Roma capitale, ma i sindaci che andiamo ad eleggere tra poche settimane non hanno i poteri per gestire nulla che vada oltre i confini del comune. Il sindaco di Roma, di Milano, di Torino dovrebbe avere il ruolo e gli strumenti di un governatore che gli consentano di intervenire nell’intero territorio compresi i comuni limitrofi, senza essere accusato di lesa maestà dai sindaci. Ma così non è.
Non solo. Chi paga per questo processo? I poteri fiscali di un comune sono tali che non riescono nemmeno a coprire i servizi elementari, quelli vecchio stile, che risalgono indietro nei secoli. Figuriamoci se possono fare da volano alla rivoluzione dell’economia innovativa.
La riforma costituzionale che verrà votata a ottobre su questo punto non offre risposte. Anzi, siccome punta a una concentrazione di funzioni in mano al governo di Roma, togliendole alle regioni, sembra ispirata a un nuovo centralismo. Intendiamoci, il federalismo del quale si è parlato per quasi vent’anni non ha mai funzionato e le Regioni si sono dimostrate degli ectoplasmi, non hanno nulla a che vedere con l’esempio tedesco, tanto meno quello americano.
Il modello suggerito da Amato, del resto, non punta sulle regioni, ma sulle metropoli, il che dovrebbe comportare non solo una vera fine delle province, ma anche un ridisegno complessivo dell’impianto regionale. La discussione è aperta e in Parlamento giacciono progetti che probabilmente potranno essere ripresi in mano se vincerà il sì al referendum di ottobre. Tuttavia l’esperienza ci ha insegnato che tutte queste architetture istituzionali in Italia sono ottime per alimentare dibattiti, convegni e magari qualche seminario universitario, ma non vanno mai da nessuna parte.
A questo punto che dire? Hanno ragione i milanesi: si cominci a fare, poi una volta partita, la locomotiva si trascinerà anche il resto dei vagoni. Hanno ragione purché sia chiaro che a pagare dovranno essere i soggetti che partecipano al tavolo a cominciare dai privati, banche, industrie e quant’altro. Perché se tutto si regge nell’attesa che paghi Pantalone, altro che economia innovativa, torna in ballo con una vernice teocratica e un po’ d’inglese, il vecchia caro (nel senso di costoso) Stato assistenziale.
Stefano Cingolani