Skip to main content

Con Sadiq Khan Londra ha dato un calcio alla paura

Sadiq Khan

Sbaglierò – non si riesce a leggere tutto e qualcosa può sempre sfuggire – ma mi pare proprio che tra i commenti dei media italiani all’elezione di un musulmano a sindaco di Londra manchi qualcosa. A spiccare è l’assenza di un importante quanto eloquente parallelo che ha valenza storica, sociale, politica, ma forse – su tutto – ancor più antropologica. Perché il parallelo è questo: britannici di origine pachistana erano gli attentatori che colpirono Londra per due volte, nei giorni 7 e 22 luglio 2005, seminando morti, distruzioni e paura; e britannico di origine pachistana è Sadiq Khan il neoeletto primo cittadino. Parallelo che non mi sembra da poco.

Khan, è giusto ricordarlo, non è stato eletto per il rotto della cuffia, ma con il 56,8% dei consensi e con complessivi 1,3 milioni di voti, cifra che corrisponde al più vasto mandato popolare di tutti i tempi nella storia della democrazia inglese. Questo per dire, in estrema sintesi, come i londinesi abbiano sì pianto quei loro morti del 2005, abbiano sì riparato quelle distruzioni, ma abbiano dato soprattutto un sonoro calcio alla paura. Sentimento che del resto – la Storia lo ha insegnato più volte – non è cosa che appartenga loro.

Per quel che vale la mia memoria, ricordo perfettamente quei giorni del luglio 2005. Ero stato spedito là dal mio giornale e come prima immagine mi torna alla mente il volto del primo ministro Tony Blair, rientrato precipitosamente dal 31° vertice del G8 nella vicina Edimburgo e apparso in un messaggio televisivo alla Nazione. Comprensibilmente teso, ma sicuro e deciso, Blair scandì poche parole: “È un giorno molto triste per il popolo britannico, ma dobbiamo proteggere il nostro modo di vivere. Io sono volato qui, lasciando l’impegno internazionale dove mi trovavo, soltanto per constatare di persona e dare le prime disposizioni. Stasera, però, rientrerò a Edimburgo per onorare il mio impegno. Perché noi siamo civiltà e loro no”.

Già… “il nostro modo di vivere”. Mi ritornano alla mente quelle parole, oltre al volto di Blair, perché furono la sintesi perfetta di ciò che tiene insieme la società britannica: è una colla fortissima, un mastice antico che avrei visto agire e iniziare a “tirare” all’indomani nelle strade di Londra e sui vagoni della subway; parlando con la gente che vive nelle ricche e immacolate dimore di Chelsea così come con quella che affolla i quartieri più popolari e periferici, quelli con le casette tutte uguali rivestite di finti mattoni; tra la gente che frequenta i ristoranti blasonati e i clienti fissi dei localini impregnati dell’olio fritto di fish&chips.

Una colla che avrei trovato incredibilmente consolidata anche dopo la replica terroristica del 22 luglio, quando ritornando a Londra giuravo in cuor mio che quella seconda ondata di attentati aveva fatto senz’altro saltare i nervi anche a loro. E invece no. Li ritrovai lì, dignitosi nei loro abiti al 70% sintetici da grande magazzino, così come in quelli perfettamente tagliati e cuciti con le migliori stoffe dai sarti di Savile Row; li rividi composti e tranquilli, impegnati nella lettura di un libro in metropolitana o del Financial Times sui marciapiedi della City; li invidiai osservandoli in coda – così come soltanto gli inglesi sanno stare in coda! – per salire sull’autobus o per entrare a teatro. Certo, qualsiasi rumore forte proveniente dalla strada, o un salto più brusco del metrò in corsa sui binari era in grado di far trasalire anche loro, oltre che il sottoscritto. Ma un istante dopo i loro nasi si erano rituffati nelle pagine del romanzo o nelle grigie colonne dei listini di Borsa. Perché la vita continuava, doveva continuare come prima anche se ancora la protezione civile raccoglieva pezzi di corpi nelle gallerie chiuse, mentre la polizia indagava e mentre squadre di operai lavoravano a ripristinare quanto era stato distrutto.

Nessuno urlava. Nessuno strillava contro gli islamici o contro qualsiasi altro gruppo, religioso o etnico che fosse. Nessuno bofonchiava odio davanti alle telecamere di qualche pseudo programma giornalistico, con parole magari suggerite da un improvvisato copione mandato a memoria e indossando magliette con “spontanei” slogan prestampati. Certe trasmissioni sono toccate a noi, rassegniamoci. Nessuno assediava neppure le moschee. E men che meno sentivi qualcuno inveire contro il governo. Perché? Perché bisognava che quella colla agisse.

Quella british glue ha agito, altro che se ha agito… L’altro giorno i londinesi ce l’hanno dimostrato. Ci hanno anche dimostrato – soprattutto a noi, Paese governato da non eletti – che cosa sia un’autentica Democrazia scritta con la maiuscola, come lo è la loro. Una democrazia dove per esempio la Costituzione prevede che il leader dell’opposizione riceva un appannaggio economico superiore a quello del partito di governo, e questo proprio perché “capo dell’opposizione di sua Maestà”, dato che in una Democrazia con la maiuscola la voce fondamentale è quella dell’opposizione, in quanto pungolo e tormento quotidiano della maggioranza. Quella che, grazie alla salutare legge dell’alternanza, diventerà opposizione domani. Giù il cappello!

Londra e i londinesi hanno però dimostrato altro. Per esempio di aver compreso, così come peraltro hanno fatto da secoli i loro cugini americani, che l’integrazione è forse qualcosa di cui qualcuno può legittimamente avere paura, o detestare di cuore, specie in certi momenti iniziali, turbolenti e pericolosi, ma che nonostante questo è un processo possibile. Al di là del colore della pelle e della religione.

Hanno anche compreso che il figlio di un autista d’autobus immigrato dal Terzo Mondo possa diventare sindaco di una grande metropoli, proprio così come fu tre volte governatore dello Stato di New York l’italiano Mario Cuomo, figlio di Donato, emigrante di Nocera Inferiore; quel miserabile dago – era il dispregiativo usato dagli ignoranti e dai paurosi per chiamare gli italiani – che al suo arrivo in terra d’America campava scavando le fogne. Londra ha insomma dimostrato che lo scontro di civiltà che in tanti agitano è soltanto il figlio di ignoranza e paura. Hanno infine dimostrato che soltanto il melting pot, il grande e ribollente minestrone delle diverse razze ed etnie, è in grado produrre bellezza e ricchezza. Come quella di regalare ogni anno ai Paesi che hanno accolto in nuovi arrivati, o i loro genitori, premi Nobel in ogni scienza. E di ogni colore. La logica consanguinea del maso chiuso, del “restiamo tra di noi e non contaminiamoci” produce forse bambini tutti uguali, belli e biondi, ma a volte con il gozzo.



×

Iscriviti alla newsletter