Il processo si chiama gamification e propone tra gli strumenti più efficaci i serious games. Il digitale ci consegna un modo di conoscere, approfondire e apprendere divertente e irriverente, giocoso e competitivo, con tanto di classifiche e valutazioni. Ma soprattutto riconosciuto (anche se informalmente…) tra i più efficaci metodi di studio, ricerca, aggiornamento. Con qualche colpo di sonno…
Provare l’ebbrezza di diventare Premi Nobel: “Non c’è bisogno di essere un genio per capire il lavoro del premi Nobel. Giochi e simulazioni, basate sui risultati dei premi assegnati, insegnano e ispirano giocano”. http://www.nobelprize.org/educational/
Al limite del buon gusto? Darfur sta morendo: “Una finestra sull’esperienza dei 2,5 milioni di rifugiati nella regione sudanese del Darfur. I giocatori gestiscono il campo profughi e lo difendono dagli attacchi delle milizie Janjaweed. Conoscere genocidio in Darfur dove hanno perso la vita 400.000 persone”. http://www.darfurisdying.com/
Educazione alla sostenibilità. Sfidaclimatica: “Nel gioco si diventa presidente delle nazioni europe e si affronta il cambiamento climatico in maniera efficace ma anche ‘politica’ per diventare popolare quanto basta per rimanere in carica”. http://www.bbc.co.uk/sn/hottopics/climatechange/climate_challenge/index_1.shtml.
Inquietante. La povertà è un gioco: “Ping mostra come è vivere al limite della povertà. I giocatori devono cercare lavoro e riparo, avendo cura della loro salute e delle relazioni sociali, per sfuggire alle grinfie della totale indigenza e dell’abbandono“. http://www.povertyisnotagame.com/non è un y non è un
Alcuni esempi di serious games, dell’imparare giocando. Ma c’è di più dietro questi espedienti, molto di più. Una vera e propria rivoluzione nei percorsi di apprendimento, anche informale, formazione (formale), nella scuola, nella comunicazione, esterna e interna, soprattutto e ovviamente nell’informazione. Le riscritte leggi del cambiamento e dell’evoluzione digitale della specie umana hanno una nuova – indiscutibile – protagonista che agisce sulle leve primarie: la parola d’ordine è gamification. Letteramente ludicizzazione. E anche la pillola più amara va giù! Nella convinzione (dimostrata a più livelli) che il gioco può cambiare regole e azioni nei processi di apprendimento rendendoli veloci e potentissimi. Non paragonabili ai tradizionali percorsi. Se la gamification è efficace i ruoli tra docente e discente cambiano se non addirittura si invertono e i processi proliferano in ambienti ibridi ed coinvolgenti. La cattedra c’è, ma non si vede… E’ il miglior modo per elaborare quelle competenze trasversali che il mondo del lavoro e dell’impresa reclama a gran voce. Vero e proprio passpartout. Un imperativo. Spiega Matteo Uggeri della Fondazione Politecnico di Milano: “Nella didattica scolastica ed universitaria, ma ancora di più nel mondo della formazione aziendale, gamification è entrato nel gergo degli insegnanti scolastici e ancora di più presso i responsabili delle risorse umane nelle aziende: tutti vogliono coinvolgere i discenti con dinamiche ludiche dalle più banali (gare, concorsi) ad esperimenti di più alta complessità, ad esempio giochi dove la componente collaborativa permette anche di formare sulle così dette soft skill (o competenze trasversali) che tanto mancano spesso a chi entra nel mondo del lavoro”.
Si scrive gamification, dunque, si legge serious games. Giocare per formare alle abilità e quindi allo sviluppo delle competenze e nello stesso tempo gestire i dati prodotti. Questo vuol dire anche valutare se questi processi stanno funzionando e vanno nella direzione giusta. “Le aziende hanno bisogno di nuove idee per formare personale stressato, poco motivato e recalcitrante. Scuola e università devono stare al passo con la penetrazione rapida e incontenibile dell’entertainment digitale nella vita dei giovani (e non solo). Il gioco, ed il videogioco in particolare, offre molte soluzioni e ha anche altri vantaggi, ad esempio quello di rendere più efficace il monitoraggio dell’apprendimento: se il giocatore/discente ha portato a termine il gioco, se ha vinto, se ha conseguito un punteggio, passato dei livelli, affrontato sfide, posso saperlo, vederlo, misurarlo”.
In questo senso si definiscono anche alcune criticità.
“Il termine gamification si presta anche a molti contenziosi. Nella scuola è inteso più come un modo per coinvolgere i ragazzi in dinamiche di gioco, e si allaccia spesso al discorso della “classe capovolta”, cioè gli studenti non apprendono le nozioni nell’edificio scolastico ma a casa, e poi sfruttano il tempo in classe per collaborare in dinamiche di gruppo con componenti ludiche. Usando anche il digitale, in forma ‘light’, dai video in rete alle lezioni in PowerPoint o Blenspace preparate da loro stesse per i propri pari. Nelle aziende invece è visto da un lato come strumento di marketing un modo per formare i dipendenti, specialmente sulle soft skill / competenze trasversali che altrimenti sfuggono. In quel senso parlare di gamification può perfino voler dire sconfinare anche nel coaching”.
Si profilano altri fronti, avveniristici: per esempio le sconfinate praterie di sviluppo che puntano con decisione e rapidità alla realtà virtuale immersiva e alla formazione aumentata. Altri mondi. Da trattare con cura. Ci vogliono competenze: creare cultura di base, quindi formare una nuova leadership. Matteo, in Fondazione Politecnico di Milano, è tra i promotori del progetto JamToday: “Una rocambolesca e avventurosa quadratura del cerchio: invitiamo ragazzi di ogni età e profilo a sessioni intensive di 48 ore in cui, dato un tema (l’anno scorso era la vita più sana) realizzano i prototipi di serious games. Videogiochi che stimolano l’apprendimento realizzati imparando. Il formato, derivato da quello delle hackatons e delle game jam, si presta anche al recruiting: nella game jam le aziende possono incontrare i talenti che vorrebbero nella loro azienda”.