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Stefano Fassina, Virginia Raggi e il nichilismo ideologico della sinistra radicale

stefano fassina

“Col Pd di Renzi siamo alternativi […]. E non escludo neanche la possibilità di sostenere un candidato del Movimento 5 Stelle se sul piano programmatico è più compatibile con la nostra idea di sviluppo di una città. Vogliamo stare sui programmi”: così Stefano Fassina il 9 novembre 2015, ospite della trasmissione Agorà su Raitre. Se l’esclusione delle liste che sostengono la candidatura a sindaco di Roma dell’ex viceministro del Pd fosse confermata, non cambierà nulla nella corsa al Campidoglio. L’unica differenza è che Sinistra italiana e Sel, invece che al ballottaggio, voteranno già al primo turno per la grillina Virginia Raggi. Fossi in Roberto Giachetti, non mi farei quindi soverchie illusioni. Nemmeno un suo endorsement per i no-global, i no-Ttip, i no-Tav, i no-Jobs Act, i no-Ilva, i no-riforma del Senato riuscirebbe a scalfire il nichilismo ideologico della sinistra radicale. Non è questione di programmi. I suoi capi e capetti, infatti, sono uniti da un’unica incontenibile e spasmodica ossessione: cancellare Matteo Renzi, l’intruso, l’alieno, l’usurpatore, dalla scena politica nazionale.

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Commentando la morte di Lenin, Antonio Gramsci aveva affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale “Ordine Nuovo” (1 marzo 1924). Esse si collocano agli antipodi della tradizione liberaldemocratica, ma offrono qualche spunto di riflessione su un tema che da almeno un ventennio monopolizza il dibattito pubblico domestico. “Ogni Stato -scriveva l’allora segretario del Partito comunista- è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo” [i corsivi sono suoi]. Gramsci teorizzava dunque in modo netto la necessità di quella leadership carismatica che oggi viene vista col fumo negli occhi dai suoi (sedicenti) eredi, né mancava di deridere la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, […] che il comando si personalizzi”. Gramsci si riferiva ovviamente al partito operaio, ma non è certo un caso che tutte le esperienze totalitarie -di destra e di sinistra- si siano rette su un culto della personalità assoluto, che saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader.

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Nell’accezione corrente di carisma, siamo certo assai lontani dalla definizione weberiana di un sentimento basato sulla “devozione alla eccezionale santità, eroismo o carattere di un individuo, e ai principi normativi e ordinamentali da lui incarnati”. Bene che vada, il carisma dei nostri odierni leader riesce ad ispirare nell’elettorato un sentimento di fiducia nelle scelte proposte (forse il solo Silvio Berlusconi della prima ora è riuscito ad esercitare qualche ondata di entusiasmo tra i suoi seguaci). Qualità che, molto più prosaicamente, si condensa nell’attitudine a “bucare lo schermo”. Non c’è ascesa di leader, oggi, che non sia o non sia stata strettamente intrecciata al suo successo mediatico (Mauro Calise, “La democrazia del leader”, Laterza, 2016). Qualcuno potrà obiettare che è la scoperta dell’acqua calda, e in parte è vero. Tuttavia, ricordarlo può servire a non sorprendersi più di tanto dell’ascesa irresistibile di personaggi, solo per fare un nome, come Donald Trump.


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