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Trump e Sanders, sgambetti e spinte nei loro partiti

Fermenti nei due maggiori partiti Usa, nonostante la scelta dei candidati alla Casa Bianca appaia ormai fatta: più forti fra i repubblicani, più sottili fra i democratici, dove aumentano le pressioni perché Bernie Sanders, il rivale di Hillary Clinton, si ritiri dalla corsa, dando così la possibilità all’ex first lady e a tutto il partito di concentrare forze e attenzione contro il rivale conservatore. Intorno al senatore del Vermont c’è, però, generale rispetto e diffusa simpatia: la sua figura non mina l’unità sostanziale del fronte progressista.

Nulla al confronto delle manovre di cui ancora si parla fra i repubblicani per bloccare la candidatura del magnate dell’immobiliare, che, dal canto suo, già agisce da candidato alla Casa Bianca e, qualche volta, da presidente: prepara la scelta del suo “vice”; compila liste di proscrizione di quanti non vorrà più vedersi intorno una volta eletto; annuncia il licenziamento della presidente della Fed Janet Yellen; stila una short list di possibili giudici della Corte Suprema, come se dovesse designare lui il successore di Antonin Scalia; e redige programmi di politica estera.

Se il presidente del comitato nazionale del partito repubblicano Reince Priebus s’è ormai arreso all’evidenza della vittoria di Trump nelle primarie e dice che il candidato “in pectore” sta sforzandosi di agire “in modo più presidenziale”, c’è chi non si dà per vinto e cerca ancora alternative, mentre la tregua tra lo showman e lo speaker della Camera Paul Ryan non s’è ancora tradotta in un endorsement formale.

Il Washington Post riferisce, citando fonti interne al partito repubblicano, che alcuni esponenti conservatori moderati, esasperati da Trump e capeggiati da Mitt Romney, il candidato nel 2012, stanno guardandosi intorno alla ricerca di opzioni credibili: i loro sforzi si sarebbero intensificati dopo il 4 maggio, cioè dopo che Trump è rimasto solo in corsa per la nomination, essendosi ritirati Ted Cruz e John Kasich, i suoi ultimi rivali superstiti. C’è, infatti, la consapevolezza che gli sforzi devono eventualmente concretizzarsi prima che il magnate raggiunga la soglia dei delegati necessaria per garantirsi la nomination.

Fra i nomi su cui si punterebbe, secondo il giornale, che, come il New York Times, non è certo ben disposto verso Trump, vi sono il senatore del Nebraska Ben Sasse, un conservatore tra i più critici verso lo showman, e lo stesso governatore dell’Ohio John Kasich, che ha sospeso la sua campagna, ma che, fra i moderati, è stato il più tenace anti-Trump. Personaggi di questo calibro appaiono, però, lontani dalla popolarità e dalla riconoscibilità nazionali necessarie per contrastare il lanciatissimo e mediaticamente fortissimo magnate.

Il cui cammino, però, è lastricato di polemiche e contraddizioni: il suo rapporto con le donne, dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New York Times; il rifiuto di rendere pubblica la dichiarazione dei redditi; il polverone intorno all’abitudine, che avrebbe avuto in passato, di chiamare giornalisti come se fosse il suo portavoce, raccontando di se stesso cose positive; la decisione di sollecitare fondi per la sua campagna dopo avere sempre detto che se la sarebbe pagato da solo.

Su ogni fronte aperto, Trump si difende, com’è sua abitudine, attaccando. Ma, a tratti, c’è l’impressione che subisca un assedio: all’interno del partito, non da parte dei democratici.

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