Questa volta, è proprio finita. Fra i repubblicani, perché Donald Trump è rimasto solo dopo i ritiri in sequenza dei rivali superstiti Ted Cruz e John Kasich. Fra i democratici, perché Hillary Clinton, pur perdendo nell’Indiana, fa un altro passo verso la certezza aritmetica della nomination, che non può più sfuggirle: Bernie Sanders, il suo rivale, lo ammette, ma resta in corsa per incidere sulla piattaforma del partito alla convention.
Se il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà ancora un democratico, sarà una donna, la prima, dopo che Barack Obama è stato il primo nero.
Se sarà un repubblicano, sarà per la prima volta una persona che non ha mai affrontato un’elezione né gestito un ufficio pubblico: Donald Trump, il magnate dalla bazza rossa, che era considerato all’inizio un fenomeno passeggero e ha invece fatto fuori tutti i suoi rivali – in partenza, il gruppo degli aspiranti alla nomination era composto di 17 unità –.
La sfida per la Casa Bianca nell’Election Day dell’8 novembre sarà Clinton contro Trump: saranno di fronte due personalità e due vissuti profondamente diversi: una donna politica d’enorme esperienza, che è stata first lady, senatrice, candidata alla nomination nel 2008, segretario di Stato; e un imprenditore di successo senza esperienza politica, anzi un campione dell’anti-politica; una donna che non piace alle femministe e un uomo che spesso insulta le donne; una che pesa le parole e uno che si vanta di non farlo.
Per motivi diversi, entrambi sono a rischio d’inciampare in scheletri che escano dall’armadio o d’essere invischiati in inchieste sul loro operato: Hillary, ad esempio, per l’uso di mail private quand’era segretario di Stato; Donald per uno scandalo che investe la sua Università.
Sulla carta, la partita sembrerebbe sbilanciata a favore della Clinton, capace di attirare voti al centro, mentre Trump preoccupa i moderati e può spaventare centristi e indipendenti. Ma non è affatto scontato che il magnate dell’immobiliare perda: è sulla cresta dell’onda, è capace di suscitare consensi ed entusiasmi e di chiamare alla partecipazione aree della società americana normalmente astensioniste. L’ex first lady, invece, deve “registrare” la sua campagna: troppe le sconfitte a opera di Sanders nell’America tradizionalmente bianca, dove non le vengono in soccorso i voti di neri e ispanici; troppo poca la sua presa progressista fra giovani e donne.
I giochi democratici erano già fatti, dopo le primarie sulla Costa Est dominate da Hillary. Invece, per i repubblicani, la svolta è arrivata dal voto in Indiana, sulla carta poco significativo: Trump vince a mani basse, nonostante Cruz e Kasich si siano coalizzati contro di lui; fa il pieno di delegati, e manda al tappeto il senatore del Texas, che getta la spugna; a questo punto, ottiene finalmente l’appoggio del partito, che fin qui gli ha solo messo bastoni fra le ruote.
Il governatore dell’Ohio prima dice che resta in corsa e punta a una convention “aperta”, senza vincitore predeterminato; poi, visto il mutato atteggiamento del partito, capisce l’antifona e dà forfait. I giochi sono fatti: il resto delle primarie, compreso il Super-Martedì della California il 7 giugno, diventa una formalità.
A livello di delegati, a questo punto né la Clinton né Trump faticheranno a ottenere la maggioranza dei delegati necessaria a garantirsi la nomination prima delle convention di luglio. Trump è intorno a quota 1050 – gliene servono 1237-: i prossimi quattro appuntamenti (Nebraska, West Virginia, Oregon e Stato di Washington) mettono a disposizione 142 delegati, poi c’è il Super Martedì del 7 giugno con la California, che da sola ne vale 172.
La Clinton è intorno a quota 2200 – a lei ne servono 2383 – e potrebbe già chiudere i conti con West Virginia, Kentucky, Oregon e Puerto Rico, senza aspettare la California.