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Trump va forte, ma suo stile stressa staff e finanziatori

Donald Trump

I sondaggi lo danno in spinta. Ma il New York Times, che proprio non gli è amico, racconta che la campagna presidenziale di Donald Trump è confusa e disorientata: lo stile di gestione tipico del magnate, che funziona negli show televisivi, creerebbe addirittura un senso di paranoia nello staff, il cui direttore politico Rick Wiley, assunto solo pochi mesi or sono, è appena stato allontanato, senza per altro essere immediatamente sostituito.

Le ricostruzioni dei media sulla separazione tra Trump e Wiley non sono univoche. C’è chi parla di disaccordi, mentre la versione ricorrente dei collaboratori del candidato repubblicano è che si trattava di un incarico a tempo determinato: “Rick Wiley era stato assunto a breve termine come consulente – si legge in una nota –. Lo ringraziamo per averci aiutato in questa transizione”.

Il New York Times, che ha già vagliato a fondo il rapporto tra il magnate e le donne, ricostruisce le tensioni all’interno della macchina elettorale del candidato repubblicano, citando fonti secondo cui alcuni membri dello suo staff sospettano che ci siano microspie nei loro uffici.

E, fra i possibili finanziatori della campagna presidenziale, convivono esitazioni e incertezze: c’è chi s’interroga se contribuire e c’è chi intende farlo ma non sa come, perché mancano indicazioni ad esempio sui super Pac – i fondi che raccolgono le donazioni – da foraggiare.

Anche se ha pubblicamente assicurato che avrebbe adottato uno stile più presidenziale, Trump – afferma il New York Times – continua a mostrare i limiti del suo stile di manager e di candidato. Un’altra difficoltà viene dalla sua stessa personalità imprevedibile: un punto di forza nei comizi, ma un handicap organizzativo. Le tensioni emergono anche dalla difficoltà di coprire incarichi chiave nella campagna, quali il direttore della comunicazione, perché Trump vuole essere capo e portavoce di se stesso.

Affermazioni in fondo confermate dalla stessa dura reazione di Trump all’articolo del giornale: “Il New York Times sta fallendo: ha scritto una storia sul mio stile di gestione della campagna e sul fatto che non ho molte persone nel mio staff. Ne ho 73. Hillary ne ha 800 e la sto battendo”, ha scritto su Twitter. E ancora: “Non credete ai media che citano fonti interne alla mia campagna […] Le uniche affermazioni che contano sono le mie”. E della stampa critica dice: “E’ bugiarda”.

Secondo i critici interni, il magnate dimentica che le primarie sono finite e che l’attenzione deve essere ora tutta sul voto di novembre. Di qui, il ripetersi di incidenti di percorso e il persistere di toni conflittuali nei comizi: contro il giudice che indaga a San Diego sulla sua Università, “colpevole” di essere di origine messicana; e, più in generale, contro quanti lo contestano. Giorni fa, commentando gli incidenti fuori da un suo meeting ad Albuquerque, New Mexico, ha scritto: “I contestatori erano delinquenti che sventolavano la bandiera messicana […] criminali!”.

Con l’effetto che, intorno a lui, cresce il consenso del “popolo di Trump”, ma anche l’ostilità d’interi gruppi etnici, oltre che di intellettuali, “liberal” e moderati. Ancora ieri, il magnate, prendendosela con Hillary che “non può essere presidente” perché “vuole abolire” l’emendamento della Costituzione che tutela il diritto ad avere armi, ha pure attaccato il marito Bill, l’ex presidente, perché fu l’artefice dell’area di libero scambio con Canada e Messico (Nafta), “il peggiore accordo mai firmato”, rilanciando la sua idea di muro più alto sul confine.

Trump, invece, solidarizza strumentalmente con il rivale dell’ex first lady Bernie Sanders, ma solo perché pensa – o spera – che molti sostenitori del senatore ‘socialista’ finiranno col votare per lui, perché “i democratici lo stanno trattando molto male” e “il sistema sta manovrando contro di lui”.

(post tratto dal blog di Giampiero Gramaglia)



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